Perché Dio esige di stare al primo posto? Perché è la sola fonte della vita e dell’amore. Così, la nostra vera felicità, la nostra unica possibilità di realizzazione si concretizzano se impariamo ad amare Dio sopra ogni cosa.
«Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse: Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo».
Sono sempre stata molto colpita da queste parole di Gesù, soprattutto nella versione che ne dà Luca (14,26) il quale aggiunge, rispetto a Matteo, quell’improvviso voltarsi del Cristo mentre cammina seguito da una folla e quel suo rivolgersi, quasi con brutalità, ai molti che gli si accalcavano attorno.
Un gesto subitaneo, accompagnato da parole di fuoco. Un bisogno di essere sincero fin quasi alla crudeltà. La necessità di chiarire, in una sintesi estrema, che cosa davvero significasse credere a quello che egli andava predicando. L’urgenza di dire che la sua era, sì, una buona novella. Ma che le folle che avevano preso a seguirlo, attratte dalla sua persona e dal suo messaggio, non si facessero illusioni perché non si trattava di un cammino facile.
Un linguaggio forte che sembrava rinnegare la logica comune e persino quella legge mosaica che Dio stesso aveva donato al suo popolo e che prescriveva di onorare il padre e la madre, di amare la famiglia. Una sorta di spada tagliente che affondava proprio nel punto più profondo e dolente per ogni uomo: l’amore per se stesso, i propri sentimenti e desideri e per quella famiglia che costituisce per ognuno – in ogni tempo e in ogni luogo – il nucleo centrale degli affetti, quella vita intima che è la parte più importante, se non decisiva, dell’esistenza.
Parole dure, ostiche, destinate a scioccare e per questo a far riflettere allora come ora. Una chiave importante, decisiva, per aprire la “porta stretta”, quel passaggio fondamentale, iniziatico che introduce alla comprensione del mistero che sta alla base della vita.
Se Luca vuole colpirci come con una folgore, Matteo («Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me», 10,37) ci aiuta invece a capire che quell’“odio” di cui Gesù parla non è certo un invito a nutrire sentimenti malevoli verso noi stessi, i nostri cari o il resto del mondo quanto piuttosto a verificare bene i sentimenti che albergano nel nostro cuore per saggiarne la qualità. Dio ha davvero il primo posto nella nostra vita o piuttosto noi anteponiamo all’amore per lui mille altri amori?
Sì, perché la conseguenza più grave del peccato originale è proprio questa velatura della nostra vista interiore che non ci permette più di intuire con chiarezza l’ordine giusto delle cose, e che ci porta spesso a scambiare il bene con il male, il relativo con l’assoluto. Così tutti noi corriamo continuamente il rischio di cadere in quel peccato di idolatria considerato giustamente il più grave fin dall’Antico Testamento. Oggi il pericolo non è più rappresentato dal vitello d’oro ma da molte altre cose: da una egoistica e spesso nevrotica centratura su noi stessi, sul nostro corpo, sui nostri desideri e progetti, da un rapporto scorretto con gli altri che può essere di dominio o al contrario di sudditanza, dal desiderio smodato di denaro, di successo, di sesso e di molte altre cose ancora.
Anche noi credenti non siamo affatto esenti da tutti questi rischi.
Noi pure abbiamo spesso un rapporto con Dio nel quale gli ritagliamo il ruolo di esecutore o di protettore dei nostri progetti e desideri. Lo invochiamo perché esaudisca quanto ci sta a cuore e non perché ci aiuti davvero a realizzarci secondo i suoi disegni.
Tutto questo almeno fino a quando non capiamo quella frase forte e terribile di Gesù: Dio esige di stare al primo posto non perché sia un moloc che vuole sangue e sacrifici dalle sue creature. Ma perché è lui e lui solo la fonte della vita e dell’amore.
Così, solo se restiamo in contatto profondo con lui, solo se teniamo vivo quel cordone ombelicale spirituale che ci lega a lui e attraverso il quale passa la grazia, avremo quella “sapienza” e quella lucidità che ci permettono davvero non solo di realizzarci ma anche di dare vita a rapporti corretti e felici con i nostri simili, familiari e non.
Per questo Dio solo, questo Dio Uno e Trino straordinario e impensabile per la nostra piccola mente, che si è rivelato come dinamismo continuo di amore tra Padre, Figlio e Spirito, che ci ha creato perché desidera coinvolgerci nella sua stessa vita, Dio solo, dicevo, è per la natura stessa del nostro essere il nostro primo e indispensabile partner. Quello davvero “giusto” al quale il nostro cuore anela anche senza saperlo, colui che solo può davvero colmarlo e renderlo capace di amore verso gli altri.
Lui, la roccia sulla quale fondare la nostra vita, la sorgente alla quale tornare per chiedere luce e forza, il fuoco che scalda l’anima abbattuta dalle alterne vicissitudini degli amori terreni, dalle facili incomprensioni, dalle delusioni e dalle difficoltà di ogni tipo che prima o poi investono ogni vita.
Mettere Dio al primo posto significa, dunque, semplicemente riconoscere la verità delle cose, non svalorizzare questa vita terrena. Dio stesso, in Gesù, si è incarnato per mostrarci quanto sia importante l’uomo. In quel Gesù che amava profondamente i suoi discepoli, che si commuoveva di fronte alla sofferenza, che piangeva per la morte degli amici. Ma che ha saputo anche, fino alla morte di croce, fare la volontà del Padre, come gesto riparatore che ristabilisse quella Verità oscurata dal peccato delle origini. Insegnando così anche a noi quale sia la giusta dinamica dalla quale sgorga la vera vita: più il nostro sguardo si fa solo orizzontale, più la nostra coscienza si allontana dal rapporto con il soprannaturale e più la nostra vita, invece di produrre il meglio, rischia di arrotolarsi malamente su se stessa. Noi continuiamo, come è nella nostra natura, a desiderare quell’amore e quella realizzazione cui aspiriamo ma rischiamo di non raggiungerla mai. Oppure corriamo il pericolo, come avviene nell’esasperato razionalismo che caratterizza questa nostra epoca, di credere di non aver bisogno di Dio per regolare le vicende umane e che basti la luce della ragione per trovare le giuste soluzioni. Finendo così per chiamare “compassione” la decisione di uccidere gli adulti e persino i bambini gravemente malati, per credere un “bene” per la madre sopprimere con un aborto un vita che si affaccia imprevista, per considerare una giusta “esigenza di libertà” spaccare una famiglia e, infine, per accusare di bigotta incomprensione, di oscurantismo clericale chi cerca di riportare l’accento e lo sguardo a un orizzonte più vasto.
Fidiamoci, dunque, del Vangelo. Teniamo lo sguardo fisso in Dio e, al contempo, i piedi ben piantati in terra. Lasciamo che il nostro cuore vibri per tutto ciò che alimenta le più diverse trame della nostra vita ma non dimentichiamo mai, nelle vicende quotidiane, di chiedere luce e forza a Colui che segue con amore infinito ciascuno di noi. Faremo allora esperienza diretta, fin da qui, di quel centuplo di cui parla Gesù, assicurato a chi si sarà davvero impegnato a mettere sempre e in ogni circostanza Dio al primo posto.
RICORDA
«Egli per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l’amore. Dio non ci ordina un sentimento che non possiamo suscitare in noi stessi. Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo “prima” di Dio, può come risposta spuntare l’amore anche in noi».
(Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 17).
IL TIMONE – N. 53 – ANNO VIII – Maggio 2006 – pag. 56 – 57