15.12.2024

/
Dove il comunismo resiste ancora
31 Gennaio 2014

Dove il comunismo resiste ancora

 



 

Corea del Nord, Cina e Birmania: stanno davvero cominciando ad evolvere i tre dinosauri politici dell’Asia? Fondati timori e tenui speranze circa la fuoriuscita dal comunismo


C’è una parte del mondo dove il comunismo domina ancora incontrastato. È l’Estremo Oriente, dove in alcuni Paesi la bandiera rossa con il simbolo della falce e martello sventola ancora nonostante la caduta del Muro del 1989.

In Corea del Nord
Il comunismo dinastico di Pyongyang, che da 62 anni consente alla famiglia Kim di imporre al popolo nordcoreano un grottesco culto della personalità dei suoi discendenti che si succedono ai vertici dello Stato, ha indicato un erede non ancora trentenne, Kim Jong Un, come colui che raccoglierà il bastone del comando dall’attuale dittatore Kim Jong Il. Decine di giornalisti occidentali hanno per la prima volta potuto presenziare alle cerimonie di investitura e trascorrere qualche tempo nella capitale.

In Cina
Anche il comunismo post-maoista del Pcc, Partito comunista cinese, amministrato da un’entità politica che al di là di convulsioni interne a volte sanguinose è ininterrottamente al potere dal 1949, ha rivelato il nome di colui che dopo il 2012 ascenderà quasi certamente alle cariche di segretario generale del partito e capo dello Stato. Il 57enne Xi Jinping è noto soprattutto per aver decapitato i vertici del Pcc di Shanghai nel contesto di una campagna di lotta alla corruzione, unanimemente riconosciuta come una delle grandi emergenze politiche, sociali ed economiche della Cina. Secondo l’ufficiale Istituto nazionale dell’economia, le somme di denaro che circolano nel paese come veicolo di atti di corruzione o di concussione ammontano alla stratosferica cifra di quasi 10 mila miliardi di yuan, pari a 989 miliardi di euro e al 30 per cento dell’intero prodotto lordo cinese.

In Birmania
Anche il socialismo militare in Birmania, che dal lontano 1962 ha retto le sorti del paese e ne ha cambiato il nome in Myanmar, fa mostra di voler uscire di scena e di voler cedere il potere ai civili, che sono stati chiamati ad eleggere i loro rappresentanti al Parlamento il 7 novembre, nelle prime elezioni politiche destinate ad essere riconosciute dalla giunta militare dopo 20 anni.

Oltre le apparenze, la realtà
Tuttavia le cose non stanno come sembrano. Il giovane Kim Jong Un è stato proiettato sul palcoscenico del potere solo perché le condizioni di salute del padre, sulle quali naturalmente vige il segreto di Stato, sono molto scadenti e gli equilibri fra la componente politica e quella militare del regime possono essere mantenuti senza spargimenti di sangue solo se a incarnare simbolicamente l’unità del sistema può essere presentato il volto di un altro Kim.
Xi Jinping, del quale non esiste nemmeno una dichiarazione dopo la sua elevazione alla carica di vicepresidente della Commissione militare centrale che prelude alla sua ascensione al sommo vertice del potere, appartiene alla generazione dei “principini”, figli di alte cariche del partito degli anni Ottanta la cui ascesa sociale e politica dipende essenzialmente dal nepotismo. Secondo statistiche non ufficiali, i “principini” rappresentano il 90 per cento dei 3.220 multimilionari cinesi che guadagnano più di 100 milioni di yuan all’anno.
Molti li considerano perciò un gruppo d’interesse caratterizzato da un altissimo tasso di corruzione.
Quanto alle elezioni birmane, il loro risultato è stato riconosciuto dalla giunta militare semplicemente perché il principale partito di opposizione al regime, la Lega nazionale per la democrazia del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, è stato escluso dal voto. Tale partito, nelle elezioni del 1990, prima indette e poi rinnegate dai militari una volta concluso lo spoglio delle schede, aveva conquistato ben il 58 per cento dei voti popolari. Le elezioni si svolgono mentre nelle carceri del paese o agli arresti domiciliari – com’è il caso di Aung San Suu Kyi, che ha trascorso 15 degli ultimi 21 anni sottoposta a misure restrittive della sua libertà personale – languono 2 mila detenuti politici, senza che sia stata permessa la presenza di giornalisti stranieri o di osservatori internazionali, e con una Costituzione che assegna a priori il 25 per cento dei seggi parlamentari a esponenti delle forze armate. Un altro 50 per cento di seggi vede concorrere solo partiti fiancheggiatori del regime.
In realtà timidi segni di novità in questi paesi ci sono, ma vanno cercati altrove che nell’ufficialità del potere. E nemmeno nei cosiddetti strati più dinamici della popolazione. Per lungo tempo in Occidente una genìa di ottimisti ha propagandato l’idea che l’espansione dell’economia di mercato, per quanto sotto forma di capitalismo di Stato, avrebbe condotto alla liberalizzazione politica del sistema cinese. Ancora un paio di settimane fa Thomas Friedman scriveva sul New York Times che, con 200 milioni di laureati entro il 2015 e un’economia in costante crescita, è impossibile che la Cina rimanga totalitaria. Ma se deve dipendere dalle classi beneficiate dal boom economico, la cosa non è affatto scontata: l’elite emergente della Cina costiera, quella dei 200 milioni di laureati, si accontenta di operare dentro ai limiti segnati dal governo. In cambio del conformismo politico in pubblico, si tratti della condanna del premio Nobel per la pace a Liu Xiabao o del sostegno al governo circa le isole contese con il Giappone, sono loro offerte opportunità educative nelle università cinesi pari alle migliori università americane, finanze facilmente disponibili per avviare attività imprenditoriali e opportunità grandissime nel mercato locale, caratterizzato dal basso costo della manodopera e da una domanda interna ed internazionale che spingono verso l’alto i profitti. La disuguaglianza che affligge la popolazione della Cina rurale, dove il reddito è meno di un terzo di quello della costa e le famiglie sopravvivono grazie alle rimesse dei 120 milioni di lavoratori migranti sfruttati nelle fabbriche e nei cantieri della Cina benestante, non rappresenta una minaccia sostanziale al sistema. È vero che il numero delle proteste sui posti di lavoro e nelle comunità è passato da 8 mila a 100 mila negli ultimi vent’anni, ma si tratta di incidenti senza peso politico, centrati sui livelli di retribuzione o rimostranze nei confronti di autorità locali. Non che una minaccia alla stabilità del sistema, la grande povertà della Cina rurale è una garanzia che da lì non verranno pericoli per il governo centrale.

Timide speranze
Sorprendentemente, a considerare il sistema come non più sostenibile è la vecchia guardia, a cominciare da un uomo come il premier Wen Jiabao. Una lettera di denuncia firmata da 23 anziani dirigenti del partito, fra i quali spiccano un ex segretario di Mao Zedong e gli ex direttori del Giornale del popolo, dell’agenzia di stampa Xinhua e del quotidiano governativo in lingua inglese China Daily, invoca l’applicazione degli articoli della Costituzione sulla libertà di parola e di stampa, asserendo che sono stati costantemente disattesi e che ripetute dichiarazioni del premier Wen Jiabao che vanno nella stessa direzione, l’ultima delle quali in un’intervista rilasciata alla Cnn, sono state censurate in Cina, dove nessun media ufficiale ne ha dato notizia. I firmatari concludono perciò affermando che il Dipartimento centrale della propaganda dimostra di avere più potere del Comitato centrale del partito comunista e del Consiglio di Stato.
In Corea del Nord la speranza non viene dai giornalisti stranieri, ristretti pochi giorni nella capitale Pyongyang, ma dai freelance nordcoreani clandestini che producono articoli, foto e filmati sulla vita quotidiana nel loro paese tagliato fuori dal mondo per testate esterne come Rimjin-Gang, pubblicata in Giappone per gli immigrati coreani. Gli autori sono reclutati fra gli immigrati clandestini nordcoreani in Cina, che rientrano in patria forniti di attrezzature per filmare e denaro per corrompere gli ufficiali che dovessero individuarli e arrestarli. Anche Free North Korea Radio, che trasmette da Seul, ha molti reporter segreti in territorio nordcoreano.
In Birmania non si individuano particolari segnali di speranza, se non nel fatto che la giunta militare ma ha abolito la misura degli arresti domiciliari per Aung San Suu Kyi all’indomani del voto del 7 novembre. Ma bene che vada, il personaggio politico più autorevole si ritrova libero in un Paese ancora interamente asservito.

 

 

 

 

 

IL TIMONE N. 98 – ANNO XII – Dicembre 2010 – pag. 18 – 19

I COPERTINA_dicembre2024(845X1150)

Per leggere l’articolo integrale, acquista il Timone

Acquista una copia de il Timone in formato cartaceo.
Acquista una copia de il Timone in formato digitale.

Acquista il Timone

Acquista la versione cartacea

Riceverai direttamente a casa tua il Timone

I COPERTINA_dicembre2024(845X1150)

Acquista la versione digitale

Se desideri leggere Il Timone dal tuo PC, da tablet o da smartphone

Resta sempre aggiornato, scarica la nostra App:

Abbonati alla rivista