I Rapporti ONU mostrano i record negativi dell’Africa per AIDS, malaria, tubercolosi e poliomelite. Frutto anche di una cultura che ha come ideale l’immutabilità e considera il dolore una punizione da parte degli antenati.
Soltanto il cristianesimo può cambiare questa prospettiva.
«Gliel’ho detto che la bambina doveva restare almeno altri due giorni in ospedale per essere fuori pericolo, ma lei se n’è andata lo stesso. Piangeva, aveva capito che, se la portava via, quasi di sicuro sua figlia sarebbe morta: “Devo andare – continuava a dire – c’è il funerale di mio suocero, devo andare, non posso restare”». (Intervista a un medico italiano volontario in Zimbabwe, 1994). «Anche quando, attraverso le campagne di sensibilizzazione, fu spiegata al pubblico la reale modalità di trasmissione del virus, l’emarginazione delle persone sospettate di averlo contratto aumentò. “Venivano considerati dei colpevoli puniti e dunque da isolare” racconta Noelina, responsabile del Meeting Point di Kampala, ONG locale che si occupa di malati di AIDS» (Gli occhi di Irene, a cura di Rodolfo Casadei, Guerini e Associati, 2006).
Ogni giorno in Africa decine di migliaia di persone sperimentano realtà di questo genere, responsabili – tanto quanto la povertà e la scarsità di strutture sanitarie e di personale medico – dei costanti insuccessi registrati nella lotta alle malattie che flagellano il continente. Non per niente anche gli ultimi rapporti pubblicati a fine 2006 dalle principali agenzie delle Nazioni Unite – Unaids, Unicef, Oms, Undp – hanno confermato i primati negativi dell’Africa per quanto riguarda la diffusione di Aids, malaria e tubercolosi. Anche la poliomielite che sembrava ormai debellata, salvo che in Nigeria e in Egitto, è ricomparsa in numerosi Paesi, persino in Kenya – è notizia di poche settimane fa – dove era scomparsa da 23 anni. A motivare tali comportamenti sconcertanti concorrono fattori invisibili che solo una conoscenza intima delle culture africane permette di intendere.
Bisogna sapere che, dove la società tribale ancora sopravvive, le disgrazie – malattie, morti, perdite economiche, incidenti… – sono per lo più considerate malefici oppure punizioni. I malefici possono essere dovuti a entità soprannaturali maligne che agiscono per capriccio o magari per dispetto, indisposte da un comportamento irriverente. Tra gli esseri umani sono gli stregoni a operare malefici: di propria iniziativa oppure su richiesta di persone che, ad esempio, vogliono vendicarsi di qualcuno che le ha danneggiate o offese. Le punizioni si ritengono di solito inflitte dai custodi dei valori della propria comunità, primi fra tutti gli antenati. Colpiscono chi viola le norme da loro istituite compromettendo così l’in-tegrità dell’universo pietrificato, invariabile e prevedibile, che costituisce l’ideale della concezione africana tradizionale.
Secondo questo ideale, compito di ogni generazione è la perpetuazione della comunità familiare originaria che si ritiene garantita – oltre che dalla discendenza – dal ripetersi sempre identico di funzionamento, composizione, struttura e organizzazione. Perché ciò avvenga occorre che ogni generazione si sforzi di consegnare alla generazione successiva il mondo ricevuto da quella precedente, intatto e immutato in ogni suo aspetto. Qualsiasi innovazione – servirsi di un attrezzo mai usato prima, cambiare modo di vestire, sperimentare un ingrediente nuovo in cucina, trascurare o modificare qualche aspetto cerimoniale – modifica quell’universo e può provocare la collera degli antenati. La punizione per chi disobbedisce o sbaglia, anche involontariamente e inconsapevolmente, è immediata e spesso inevitabile e, a seconda del genere e della gravità della colpa, si può estendere ai familiari e addirittura a tutta la comunità del trasgressore.
Questo sistema di credenze, oltre a costituire uno dei cardini delle società africane tradizionali che hanno come ideale un mondo sempre uguale, svolge anche una seconda funzione, non meno importante: quella di escludere l’insopportabile casualità degli eventi dolorosi individuando delle cause certe, dei fattori che l’uomo è in grado di prevedere ed eventualmente evitare; facendo attenzione a non suscitare l’ira di spiriti, divinità e antenati con comportamenti sbagliati, purificandosi ed espiando per mettere fine al castigo o per esserne dispensati.
Ed è proprio questa seconda funzione – spiegare il mistero del dolore – che permane anche quando il modello sociale comunitario si incrina e, perdendo rilevanza il valore della fedeltà al passato, viene meno la prima funzione. Come spiegazione della sofferenza, questo sistema di credenze non è diventato superfluo neanche quando i progressi scientifici e tecnologici hanno incominciato a individuare le cause verificabili di un numero sempre crescente di disgrazie. Che cosa sono e come agiscono un virus, un uragano, le forze fisiche che fanno perdere l’equilibrio e precipitare nel vuoto un corpo sono informazioni che in realtà non rispondono alla domanda: perché è successo a quella persona e non a un’altra, e in quel preciso momento, di trovarsi esposta a un contagio o alla furia degli elementi atmosferici? Punito o maledetto, l’ammalato, il disabile, il protagonista anche involontario di una situazione anomala (ad esempio, un parto gemellare) sono circondati da un’aura che mette a disagio e fa paura. Lasciarli soli è lecito, in certi casi è obbligatorio. Così centinaia di milioni di persone continuano a impegnare ogni risorsa disponibile nello sforzo di evitare il dolore rispettando ciecamente le prescrizioni, cercando di ritorcerlo contro altri e, se non è possibile fare diversamente, subendolo, rese inerti dalla paura, dal senso di colpa e dalla consapevolezza di non dover contare sulla compassione e sul sostegno altrui; anzi, sapendo di attirare su di sé ostilità, risentimento e talvolta l’ostracismo della propria comunità.
Si può allora comprendere quale rivoluzione culturale porti il cristianesimo laddove è accolto. Proprio Gesù rovescia esplicitamente questo modo di pensare, come ci è raccontato nel vangelo di Giovanni: «Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché nascesse cieco?” Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”» (Gv 9,1-3). Affermando che il dolore non è segno di colpa, e neppure di stregoneria, il cristianesimo ha permesso all’umanità di accostarsi ai sofferenti senza timore di sbagliare o di esserne contaminati, anzi accogliendoli come fossero Gesù in persona, e aprendo la via alla consolazione e al soccorso. Quelle parole hanno inoltre liberato la ragione consentendole, superata la paralizzante concezione della disgrazia come manifestazione di volontà soprannaturali mal disposte, di dedicarsi alla scienza, applicata all’invenzione e alla scoperta di strumenti per rendere la vita umana sempre più sicura e protetta e sempre meno esposta alla sofferenza.
Tuttavia, dove le parole di Gesù non sono state ascoltate e intese, dopo 2000 anni prevale ancora l’inerzia e ancora una giovane madre sceglie di condannare a morte quasi certa la figlia neonata piuttosto di mancare a una cerimonia funebre alla quale parteciperà attenta a svolgere esattamente il ruolo che le tocca per non essere punita.
«La piaga dell’AIDS che colpisce molti milioni di africani ha portato indicibili sofferenze al vostro popolo (…). Nei volti dei malati e dei morenti i cristiani riconoscono il volto di Cristo, ed è Lui che serviamo quando offriamo aiuto e consolazione agli afflitti. Allo stesso tempo è di vitale importanza comunicare il messaggio che la fedeltà nel matrimonio e l’astinenza al di fuori di esso sono i migliori mezzi per evitare l’infezione e fermare la diffusione del virus. In realtà, i valori che nascono da una comprensione autentica del matrimonio e della vita familiare costituiscono il solo sicuro fondamento di una società stabile».
(Benedetto XVI, Discorso al nuovo Ambasciatore del Lesotho presso la Santa Sede, 14 dicembre 2006).
Bibliografia
Rodolfo Casadei, Gli occhi di Irene, Guerini e Associati, 2006.
Rodolfo Casadei, Santi e demoni d’Africa, Harmattan Italia, 2001.
Axelle Kabou, E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?,Harmattan Italia, 1995.
Anna Bono, La nostra Africa-Una catastrofe annunciata, Il Segnalibro, 1995.
IL TIMONE – N.60 – ANNO IX – Febbraio 2007 pag. 16-17