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15.12.2024

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Due “grandi” del Medioevo
31 Gennaio 2014

Due “grandi” del Medioevo

 

 

 

 

Francesco e Domenico hanno dato la vita a due Ordini religiosi su cui la Chiesa ha potuto contare per ravvivare la fede, combattere le eresie, incrementare la cultura. Il primo, maestro di carità. Il secondo di sapienza. Che vanno di pari passo.

 

Nei canti XI e XII del Paradiso, là dove Dante compie l'elogio "incrociato" di Domenico e Francesco, i due santi sono paragonati alle ruote di una biga, il carro da guerra su cui la Chiesa di Dio, la Chiesa militante, affronta sul campo di battaglia i suoi nemici di sempre: gli eretici. Tanto più pericolosi perché spesso e volentieri indossano le stesse armi di chi li combatte.
È una immagine quanto mai efficace, che sarà, dopo Dante, ripresa e ulteriormente sviluppata anche da un altro scrittore cattolico. Quel Gilbert Keith Chesterton, cui siamo debitori anche di una biografia di S. Francesco e di un'altra, ancora più celebre, di S. Tommaso.
Chesterton però arricchisce l'immagine della biga di un ulteriore elemento: la complementarietà dottrinale dell'opera di Francesco e Domenico. La charitas del primo e la sapientia del secondo sono in fondo caratteristiche della stessa Chiesa, portatrice di una dottrina in cui amore e conoscenza sono sempre perfettamente in equilibrio. Se così non fosse, risulterebbe compromesso lo stesso edificio dogmatico, di cui il pontefice è geloso custode. Un edificio nel quale la perfetta coesione delle singole verità assicura all'insieme solidità ed armonia.
Nel secolo XIII questa armonia e solidità erano minacciate da più parti. Ma il pericolo maggiore proveniva da una dottrina di origine orientale che noi conosciamo come catarismo o bogomilismo, ma che, in realtà, altro forse non era che una versione dell'antica gnosi.
Che cosa sostenevano i suoi seguaci? L'idea alla base di tutto era la fondamentale negatività del mondo creato. Solo lo spirito è opera del Dio buono che abbiamo conosciuto attraverso i Vangeli.
La materia e la carne sono invece frutto di corruzione e decadenza e come tali vanno disprezzate. Assai meglio condurre una esistenza selvaggiamente ascetica oppure praticare la libidine più sfrenata piuttosto che, attraverso la procreazione, dare origine ad una nuova vita.
È evidente che una dottrina come questa veniva a minacciare non solo l'ortodossia cattolica ma la struttura stessa dell'ordine sociale. Anche perché i nuovi eretici operavano nei ceti più alti del mondo medievale e, giovandosi proprio della posizione gerarchica di cui godevano, distillavano i loro veleni nelle classi più basse. L'intera Francia meridionale era già stata contagiata dall'infezione, che ora si diffondeva nell'Italia settentrionale e centrale.
A Innocenza 111 (1198 – 1216), il grande Papa che aveva consacrato la sua vita alla grandezza e al rinnovamento della Chiesa, occorrevano, a questo punto, per vincere definitivamente l'eresia, più che le armi fornitegli da una crociata – quella contro gli Albigesi del 1208 – la forza persuasiva dei mezzi di comunicazione dell'epoca. E Francesco e Domenico di questi mezzi gliene fornirono di tipo assolutamente adeguato.
L'idea rivoluzionaria consisteva nel rinnovare l'ideale cenobitico, affiancando alla vita claustrale un altro tipo di vita, egualmente ascetico ma itinerante. I nuovi poverelli di Dio dovevano percorrere il mondo, con il preciso intento di convertire con la parola o l'esempio tutti coloro in cui si fossero imbattuti. Il monaco usciva perciò dalla clausura, e diventava frater, confratello, viandante su quelle vie su cui gli uomini del Medioevo tanto amavano viaggiare nei loro pellegrinaggi.
L'unico mezzo che gli fosse consentito per sopravvivere era tendere la mano per chiedere la carità. Ma il mondo non aveva altro potere su di lui, perché il voto della castità lo rendeva insensibile ai suoi allettamenti e quello di obbedienza ne faceva un sicuro strumento della gerarchia e dunque di Roma. In particolare, l'ideale di vita francescano aveva il vantaggio di "recuperare" alla Chiesa tutti quei giovani che il desiderio di rinnovamento evangelico spingeva tra le file degli eretici.
A ben considerare, infatti, la povertà e l'ascetismo di Francesco d'Assisi (1182 – 1226) non possedevano nulla del pessimismo tipico dei catari. Essi sono soprattutto manifestazioni di gioia, di trasporto verso il creato, come testimonia il Cantico di Frate Sole. E alla gioia è nel francescanesimo strettamente connessa l'umiltà. L'umiltà e la mitezza proprie, più che di un figlio, di un fratello minore di Gesù Cristo. Da qui l'appellativo dei membri del nuovo ordine, quello per l'appunto di frati minori.
Quanto a Domenico di Guzman (1170 – 1221), la sua vocazione nasce, proprio come quella di Francesco, dal camminare sulle strade dell'Europa medioevale. II giovane castigliano, che si reca a Roma in pellegrinaggio nel 1204, scopre, attraversando il paese di Provenza, quanto l'eresia si sia fatta ardita e quasi sfacciata. Essa possiede abili sofisti, che confutano le tesi cattoliche, mettendo alle corde i sacerdoti poco istruiti. Occorre qualcuno che risponda con le medesime armi dialettiche, che si appresti a difendere la casa del Signore contro i ladri di verità. Come fanno i cani da guardia. Per l'appunto, i Domini canes.
Domenicani e francescani si trasformano così in due armate, che procedono separate, per colpire, unite, il cuore dell'errore. Il Due e il Trecento assistono al progressivo emergere di questi frati, di cui la Curia romana si serve per i più disparati incarichi: nei tribunali dell'inquisizione, a capo delle ambascerie in Oriente, sulle cattedre universitarie.
Ed è proprio in questo ambito che rifulge il carisma di entrambi gli ordini. Le università, nate nel XII secolo, sul primitivo nucleo delle scuole vescovili, come una corporazione magistrorum et scholarium, di maestri e di scolari, diventano così il luogo ideale dove questa emergente classe intellettuale può maturare il suo sapere. Alloro interno, infatti, sia il potere religioso sia quello civile devono cedere il passo alla cultura e alla ricerca.
Libere repubbliche della scienza in un'età in cui predomina incontrastato il principio monarchico, le università riconoscono come propri cittadini soltanto coloro che – come scrive il Genicot – "hanno licenza e fanno professione d'insegnare e coloro, da qualunque luogo provengano e quale che sia il loro stato personale, che desiderano istruirsi o più esattamente conseguire un grado accademico".
Unica regola interna: adeguarsi alla ratio studiorum, al piano di studi, grazie al quale lo studente potrà conseguire quella licentia docendi, una sorta di abilitazione all'insegnamento, che gli permetterà di abbandonare lo status di apprendista per divenire maestro dell'arte. In questo caso, dell'arte somma, quella che introduce il neofita nei misteri della natura e di Dio.
A differenza di quelle moderne, infatti, le università del Medioevo concepiscono l'essere umano come una piramide, alla base della quale vi è la natura corporea, al di sopra quella sociale e politica, al vertice quell'elemento soprannaturale, che può essere soddisfatto solo dalla contemplazione divina. Dunque, tre indirizzi fondamentali: medicina, diritto, teologia. Preceduti da una sorta di corso propedeutico, a cui si dà il nome di arti.
Le arti sono, in realtà, il residuato dell'antica scuola palatina, quella istituita da Carlo Magno, nella quale si insegnavano ai rampolli della nobiltà le discipline del trivio e del quadrivio. Nelle università medioevali, assume, tra queste discipline, sempre maggior importanza la dialettica, che presto prenderà il nome di logica minor, vale a dire logica formale. Mentre come logica maior si continuerà ad indicare la gnoseologia e la metafisica.
Ma è la teologia la regina delle scienze, che viene insegnata secondo due metodologie ben distinte. Vi è la lezione tradizionale, per così dire ex cathedra, nel corso della quale il docente legge e commenta un testo sacro o dottrinale. E vi è poi la cosiddetta "disputa", in cui la scolaresca è chiamata alla partecipazione diretta, secondo uno schema prestabilito (quaestiones disputatae) oppure affidandosi all'improvvisazione (quaestiones quodlibetales). Insomma, una disciplina che sembrerebbe escludere ogni forma di contributo "dal basso", di elaborazione personale, di riflessione autonoma, in questo Medioevo, che non cessa mai di stupirci, si rivela invece una autentica palestra del genio del singolo. Ed è proprio intorno agli ardui problemi della teologia che, a Oxford come a Parigi, a Bologna come a Padova, e poi a Cambridge, Colonia, Tolosa, Montpellier, Pavia, Salamanca, i discepoli di Francesco e Domenico insegnano a generazioni di studenti a conoscere ed amare Dio, così come lo hanno conosciuto ed amato i rispettivi fondatori: lungo le strade del mondo.
Che sono ora le vie di S.Tommaso d'Aquino ora l'itinerario di S. Bonaventura di Bagnoregio.

 

BIBLIOGRAFIA
Leopold Genicot, Profilo della civiltà medioevale, Vita e Pensiero, Milano 1962.
Francois Chatelet, La filosofia medievale, BUR Milano 1976.
Gilbert Keith Chesterton, Ortodossia, Morcelliana, Brescia 1947.
Georges Bernanos, Domenico l’incendiario, Edizioni Logos Roma 1979.
Giovanni Joergensen, San Francesco d’Assisi, Edizioni Porziuncola, Assisi 1983.
Franco Cardini, Francesco d’Assisi, Mondatori, Milano 1989

 

 

 

 

 

 

 

IL TIMONE  N. 37 – ANNO VI – Novembre 2004 – pag. 22 – 24

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