Gesù affronta l’ingiusta condanna per amore di ognuno di noi. Intervista a don Giovanni d’Ercole, sacerdote orionino e noto volto televisivo, che afferma: «La Passione è un mistero di dolore ma anche di gioia, perché attraverso di essa passa la salvezza personale di ciascuno».
Don Giovanni, in passato i parroci calcavano spesso sull’immagine di Cristo morto per i nostri peccati, anzi per i miei, per i tuoi, eccetera… Oggi, seguendo tale impostazione, si teme forse di creare sensi di colpa nei credenti. Dove sta il giusto mezzo, secondo lei?
«Anzitutto, se non sottolineiamo il valore personale della salvezza, viene meno anche qualcosa della fede. Sì, Gesù è morto sulla croce per me. Il suo è stato il gesto d’amore più grande che mai uomo abbia compiuto, e il fatto di sapere che il sangue di Cristo è stato un dono per ciascuno di noi non dovrebbe creare un senso di colpa, ma anzi di liberazione: perché così ognuno si sente personalmente avvolto da quell’amore di Cristo. Il prezzo del sangue lo avvertiamo come il dono più straordinario. Credo che la morte di Cristo debba essere vissuta così, certamente rifuggendo da devozioni privatistiche: ma la salvezza non è un affare privato, è invece personale e insieme per tutti».
Ecco: non è meglio insistere sul valore redentivo «globale» del sacrificio del Salvatore?
«Non vedo dove sta il problema. Insistere sul valore globale della salvezza significa in definitiva insistere anche su quello personale.
Perché la salvezza non è anonima, noi non siamo numeri od oggetti: siamo esseri personali. Però esiste una solidarietà profonda che ci lega tutti insieme, in quanto partecipi dell’umanità. La morte del Signore dunque è stata per tutti; ma è stata anche per ciascuno. Paradossalmente si potrebbe dire che, se tutti fossero stati una persona soltanto, il sacrificio di Gesù sarebbe ugualmente avvenuto».
Però la psicologia non giudica certo bene un padre che non perde occasione per «rinfacciare» ai figli i sacrifici fatti per loro… Enfatizzando le sofferenze sopportate da Cristo, cioè, la Chiesa non esercita una sorta di ricatto psicologico sulla libertà dei suoi membri?
«Mi pare che un’interpretazione del genere sia fuori strada. Dobbiamo partire da un dato diverso e molto semplice: tutto nasce dall’amore, la Passione di Cristo si legge nell’ottica dell’amore. Se si perde di vista tale metro, si rischia ogni tipo di ipotesi, anche la più fuorviante. Insistere sul dato personale o su quello globale restano dunque due accentuazioni legittime e che tra loro si completano; tuttavia il dato fondamentale sta nel riaffermare che un Dio ha condiviso la nostra sorte umana, dandoci la possibilità di uscire dalla condizione di peccato. Questo è un dono, non ci vedo alcun ricatto, soprattutto in relazione a ciò che potrebbe dire la psicologia. Siamo in presenza di un Dio che – da una parte – ha dato tutto se stesso e – dall’altra – condivide con noi la medesima dimensione umana. Grazie a ciò, diventiamo anche noi compartecipi di un mistero di salvezza in cui dobbiamo dare ciascuno il suo contributo. Infatti l’amore del Signore chiama non tanto a restituire a lui, quanto piuttosto ad amare gli altri».
Gesù Cristo che porta il male del mondo è comunque un’immagine che, se ha la sua forza teologica, potrebbe ricordare troppo meccanicamente quella famosa della mitologia, col gigante Atlante che regge il mondo sulle spalle… Intendo dire: in che senso è ancora attuale?
«Gesù Cristo non porta il male del mondo, ma viene a vincerlo. Questa è la novità. Cristo è il grande vittorioso e la differenza fondamentale col gigante Atlante sta nel fatto che quest’ultimo è un mito impotente di fronte alla sofferenza eterna della sua pena, mentre in Cristo c’è la vittoria definitiva sul male. Come dice san Paolo: gli ha tolto il pungiglione e ora il male non fa più paura».
Il mistero del sangue di uno solo che lava la colpa di tutti è uno dei più affascinanti del cristianesimo (e non solo). Eppure – lo dice anche lei – siamo stati salvati dall’amore, non dal dolore… Non trova che, descrivendo la Passione, si calchi un po’ troppo sulle sofferenze?
«Ci sono accentuazioni diverse secondo i tempi, le culture e le spiritualità. Nessun elemento va preso in sé, ma tutto va letto e compreso nella completezza del mistero della salvezza. Bisogna insomma avere uno sguardo d’insieme, occorre guardare la Passione con gli occhi della tradizione della Chiesa: che, da grande maestra, ha sempre saputo armonizzare le varie accentuazioni spirituali mai contrapponendole, ma collegandole secondo le esigenze storiche. Qualunque sia l’interpretazione, comunque, un elemento resta fermo: il mistero della croce, che è di dolore, ma anche paradossalmente di gioia perché attraverso di essa passa la salvezza».
Gesù Cristo, nell’ultimo suo istante sulla croce, ha nominato uno per uno tutti gli uomini di tutti i tempi: così sosteneva una vecchia scuola di teologia mistica. Molto poetico, e anche molto profondo. Lei che ne pensa?
«È un particolare che mi commuove. Mi commuove sapere che Gesù – morente sulla croce – pensa anche a me, a ciascuno di noi; in fondo è Dio, per lui non è impossibile farlo anche se sulla Terra sono passati o passeranno 10 o 20 o più miliardi di persone…
Pensare che, nel momento centrale della Passione, sulla bocca del Figlio di Dio c’è stato proprio il mio nome costituisce già una preghiera e mi dà la certezza che non saremo mai abbandonati. In fondo la croce questo è: il simbolo di un abbandono che libera dall’abbandono, di una morte che libera dalla morte, di un amore che fa nascere l’amore.
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