Ricordate l’affaire Dreyfus? Nel 1894 l’ufficiale francese di origine giudaica Alfred Dreyfus fu ingiustamente accusato di spionaggio, degradato e condannato alla deportazione a vita nell’isola del Diavolo (Caienna). Ma l’accusa falsa era stata montata per coprire un’altra accusa, ben più grave: quella di essere un ebreo.
Veniamo ai nostri giorni. Convinti di vivere in un’epoca di grande libertà, compresa quella religiosa, sorrideremmo increduli di fronte alla notizia che riguardasse un padre musulmano accusato di maltrattamenti perché fa osservare ai figli il ramadan e li educa secondo i precetti della religione islamica. E sicuramente, come avvenne con Dreyfus, si scatenerebbe immediatamente una forte reazione di denuncia di quella che avrebbe tutte le carte in regole per sembrare una persecuzione religiosa con tutti i crismi.
Eppure è proprio quello che è accaduto a un papà cattolico.
Si tratta del signor Claudio Nalin, 58 anni, artigiano in pensione, terziario francescano – figlio spirituale di san Pio da Pietrelcina – e padre di sette figli, tra i quali tre femmine tutte suore. È stato accusato di maltrattamenti nei confronti dei figli maschi dal maggiore, 28 anni, in seguito alla richiesta di contribuire alle spese della famiglia.
Quali sono i terribili maltrattamenti ai quali il signor Nalin avrebbe sottoposto i figli maschi?
Eccoli esposti nella sentenza: «[…] la famiglia è concepita come un consorzio vocazionale, ed in tali termini è rappresentata ai figli: la casa diventa luogo di sacralità, spoglia, austera, costellata da immagini sacre, con una cappella in cui si prega»; il signor Nalin avrebbe fatto vivere i figli «in un ambiente orientato unicamente in senso religioso. […] Ha indirizzato 5 figli su 7 in convento». Non solo: avrebbe chiesto loro di condividere il rosario serale e il digiuno quaresimale a pane e acqua (quando maggiorenni) e avrebbe chiesto loro di fare a meno di quello strumento tecnologico del quale spesso lamentiamo l’inutilità, se non la nocività: la televisione.
Non ci credete, vero? Starete pensando: beh, che c’è di strano? Non dovrebbero essere così tutte le famiglie cattoliche? Anzi, il signor Nalin è un esempio di come un padre di famiglia cattolico dovrebbe educare i propri figli…
Invece no. Il signor Nalin è stato condannato («per il fanatismo religioso», ha titolato il quotidiano Alto Adige del 13 novembre 2004) a 36 mesi di reclusione e cinque anni d’interdizione dai pubblici uffici. Durante la fase istruttoria è stato costretto ad allontanarsi da casa per mesi, elemosinando ospitalità presso amici; moglie e figli hanno presentato un’istanza al Pubblico Ministero per permettergli di rientrare in casa: bocciata. È stato ripetutamente chiamato «aguzzino» dal Pubblico Ministero, «mostro» e «malato» sui giornali.
E tutto questo mentre la moglie, la suocera e gli altri figli non hanno mai smesso di parlare di lui come di un ottimo padre di famiglia, smentendo le accuse del figlio maggiore. Tutto questo mentre a Milano un padre, che aveva marchiato a fuoco la figlia tredicenne con un ferro rovente per aver fumato insieme a dei coetanei, è stato assolto e confermato nella patria potestà (Il Giornale, 20 dicembre 2004).
Come è possibile? Semplice: «Tale condotta [così sta scritto nella sentenza, in riferimento all’educazione religiosa impartita dal signor Nalin ai figli] costituisce maltrattamento, perché vi è stata manipolazione della capacità di giudizio e di critica attraverso la rappresentazione unilaterale ed estrema del solo mondo religioso».
È bene sottolineare che durante il processo non è stato presentato nessun referto medico, nessun certificato di pronto soccorso, nessuna segnalazione da parte della scuola che testimoni effettivi maltrattamenti a carico di alcuno dei sette figli del signor Nalin.
Vengono in mente alcune stampe giacobine che accusavano i cattolici di cannibalismo per quella loro bizzarra idea di cibarsi del Corpo e del Sangue di Cristo alla domenica…
È evidente come, dietro a questo schermo costituito da presunti maltrattamenti, si celi il vero motivo per cui il signor Nalin è stato condannato: la sua radicalità nella fede e nella pratica cristiana, anche nell’educazione dei figli.
È ormai diventato banale lamentarsi di come la società ostacoli il lavoro dei genitori cattolici a colpi di piercing, tatuaggi, reality show, veline e calciatori, pornografia; diventa sempre più difficile educare i propri figli ai valori cristiani secondo criteri educativi seri ed austeri. Ora pare che sia diventato anche un reato.
Certo, in seguito ad un singolo caso isolato non si può certo parlare di intromissione dello Stato nelle scelte educative della famiglia; come non si può parlare di persecuzione anticattolica nel caso della candidatura del ministro Rocco Buttiglione a commissario europeo.
Però, quando l’ultimogenito diciottenne del signor Nalin ha ritrattato ogni accusa dicendo di essere stato aizzato dal maggiore, il Pubblico Ministero ha affermato che «L’istituzione della famiglia non può considerarsi superiore alla legge né può sbeffeggiare o offendere le istituzioni pubbliche» (Corriere dell’Alto Adige, 13 novembre 2004); e chi è abituato a ragionare in base al principio di sussidiarietà – ma anche solo chi ricorda che la Costituzione italiana riconosce alla famiglia il diritto di scegliere il tipo di educazione, anche religiosa, da dare ai figli – non può che sentir trillare un campanellino.
Un piccolo campanello d’allarme, per ora doloroso soltanto per la famiglia Nalin, del diritto usato non per garantire i diritti delle persone, ma per affermare la propria visione della società, della famiglia, la propria ideologia. Ammesso, e non concesso, che Nalin avesse educato imprudentemente i propri figli, si tratterebbe di un problema pedagogico. Oppure lo Stato entrerà nelle mura domestiche a controllare il metodo educativo?
È quello che accade in Francia e che accadrà in Italia se e quando verrà approvata la legge contro le sette (chiamata, eufemisticamente, “sulla libertà religiosa”): «Vengono introdotti criteri sanzionatori nei confronti delle idee, in mano al Ministero dell’Interno. Si è tanto detto contro l’Inquisizione, e ora la facciamo in chiave laicista», ha dichiarato Attilio Tamburrini, direttore generale di Aiuto alla Chiesa che Soffre, intervistato da Marco Tosatti per La Stampa, il 15 marzo 2001.
Si tratta di difendere la nostra libertà, soprattutto quella religiosa, scriveva Marco Invernizzi sul numero 38 del Timone (p. 57), per «provare a difenderla con la voglia di combattere fino in fondo, prima di rassegnarci definitivamente al ritorno alle catacombe».
Ricorda
«Esiste un’aggressività ideologica secolare, che può essere preoccupante. In Svezia un pastore protestante, che aveva predicato sull’omosessualità in base ad un brano della Scrittura, è andato in carcere per un mese. Il laicismo non è più quell’elemento di neutralità, che apre spazi di libertà per tutti. Comincia a trasformarsi in un’ideologia che si impone tramite la politica e non concede spazio pubblico alla visione cattolica e cristiana, la quale rischia così di diventare cosa puramente privata e in fondo mutilata. In questo senso una lotta esiste e noi dobbiamo difendere la libertà religiosa contro l’imposizione di un’ideologia che si presenta come fosse l’unica voce della razionalità, mentre invece è solo l’espressione dì un “certo” razionalismo».
(card. Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, la Repubblica, 19 novembre 2004).
IL TIMONE – N. 44 – ANNO VII – Giugno 2005 – pag. 8-9