La scuola ci ha abituati a pensare all’Umanesimo come a un passo avanti, un progresso rispetto al Medioevo. Non a caso il periodo immediatamente successivo viene entusiasticamente definito Rinascimento. La realtà è che l’Umanesimo, lungi dall’essere progressista, era proprio il contrario, un ritorno indietro, un tentativo di restaurazione dell’età classica, ovviamente mitizzata. Una «appassionata ribellione contro il razionalismo di Aristotele e Tommaso d’Aquino». È un fatto che la letteratura utopistica nasce (anzi: ri-nasce) proprio in questo periodo di nostalgia dell’antichità, sulle orme de La repubblica di Platone. È l’umanista Thomas More il primo a scrivere sul tema, e la sua opera, Utopia, darà il nome a un genere letterario. Il More, tuttavia, al dunque si dimostrò fedele alla Chiesa fino al punto di lasciare la testa sul patibolo. Non così Lutero, che inizialmente «si considerava un umanista biblico”. La recente invenzione della stampa aveva messo a disposizione di molta più gente le Scritture, e il desiderio, appunto umanistico, della restaurazione di una pretesa età dell’oro primitiva portò a criticare certe “sovrapposizioni” operate dalla Chiesa nei secoli. Tra le quali il Purgatorio e le famigerate indulgenze. L’umanista Lorenzo Valla, il rivelatore della falsità della Donazione di Costantino, considerava Tommaso d’Aquino un «teologo minore » perché aveva usato un latino povero e non elegante come quello classico. «Questi aspetti dell’Umanesimo – snobismo e scetticismo – furono esemplificati dal più famoso fra tutti gli umanisti, Desiderio Erasmo (1469-1536)». Così scrive Rodney Stark, uno dei più eminenti sociologi delle religioni, nel suo libro A gloria di Dio. Come il cristianesimo ha prodotto le eresie, la scienza, la caccia alle streghe e la fine della schiavitù (Lindau). Erasmo ha sempre avuto un gran successo, sia in vita che postumo. Ancora oggi è ammirato, sia per l’«impressionante erudizione» che per l’approccio «eccentrico e umoristico». Poi era un pacifista, «aspetto molto enfatizzato dagli autori moderni». Era anche molto furbo (dico io), perché, «diversamente da Lutero, le sue visioni religiose erano vaghe, fin quasi al punto dell’insincerità». Diversamente anche dal suo amico More, non per nulla finito martire. Scriveva in un latino elegante (tanto da piacere a quelli come Valla). Infine, «vilipese la Scolastica », cosa che ne fece l’idolo degli illuministi. Insomma, un intellettuale moderno, modernissimo, tanto da assomigliare ad alcuni nostri contemporanei, non a caso famosissimi in tutto il mondo. Fu anche il primo a scrivere col dichiarato scopo di guadagnare un sacco di soldi, cosa che avvenne puntualmente. Stark fa notare che «Lutero, invece, rifiutò tutti i diritti» sulle sue opere.
Erasmo nacque a Rotterdam, figlio, ovviamente illegittimo, di un prete. Il quale ebbe il buon gusto di lasciarlo presto orfano, cosa che permise ai suoi tutori di farlo studiare. Naturalmente, il loro intendimento era quello di farne un sacerdote, un agostiniano per la precisione. Infatti, nel 1492 il pupillo ricevette l’ordinazione. Ora, una piaga del tempo erano i preti che intascavano il relativo stipendio (si chiamava allora beneficio) ma poi si occupavano di tutt’altro, rifiutandosi perfino di vestire l’abito clericale. Anche per questo gli umanisti sognavano la “riforma” della Chiesa. Ebbene, fu proprio quel che fece Erasmo, il principe degli umanisti. Lo si trovava dappertutto, tranne che tra gli agostiniani di Steyn, dove sarebbe dovuto stare. Andava e veniva da Oxford e Cambridge, e si fermava dove ci fosse un’università: a Lovanio, a Torino, a Parigi. Andò, naturalmente, anche a Roma, dove sul trono papale c’era un suo ammiratore, Leone X, figlio di Lorenzo de’ Medici «il Magnifico». Poi andò a stare a Bologna, poi a Venezia, poi a Basilea. Nel 1514 il suo priore, giustamente, lo richiamò a Steyn. Allora Erasmo si rivolse al Papa, il quale gli fornì prontamente le richieste dispense per continuare la vita cosmopolita e in abito civile. Leone X, che si piccava di essere lui stesso un umanista, pagò il fio della sua condiscendenza quando fu proprio lui a dover scomunicare Lutero, la cui pericolosità aveva per lunghissimo tempo sottovalutato. Il Concilio di Trento, chiamato troppo tardi a cercare di mettere una pezza sulla spaccatura della cristianità, procedette, sì, alla riforma (la cosiddetta Controriforma), ma quando i buoi erano ormai scappati dalla stalla. Il Concilio condannò le opere di Erasmo, colui che aveva «deposto l’uovo che Lutero ha covato». Ma lui, essendo già morto, poco se ne curò. Nel 1521 da Lovanio si era trasferito a Basilea. Ci rimase fino al 1529, poi se ne andò a Friburgo. Perché? Perché Basilea era diventata protestante ed Erasmo, «l’Umanesimo incarnato», non intendeva seguire fino in fondo le orme di Lutero. Ma nemmeno quelle di s. Thomas More, perché Friburgo era cattolica: infatti, dopo un poco, Erasmo tornò a Basilea.
Intellettuale puro e, quindi, “super partes”, morì, qualche tempo dopo, rifiutando i sacramenti. Fosse vissuto oggi, lo troveremmo riverito nei talkshow, in giro per il mondo a rastrellare titoli honoris causa, nelle più prestigiose manifestazioni culturali a tenere lectiones magistrales, continuamente intervistato sui massimi sistemi quale pontefice laico dello scetticismo relativista più à la page.
Cominciò la sua carriera, al solito, con un bestseller internazionale: gli Adagia, «compendio di più di tremila proverbi e citazioni tratti dagli scrittori classici». Oggi basta fare un giro su internet, ma a quel tempo, data la moda, non c’era intellettuale che non avesse il libro di Erasmo sul comodino. I bestseller, allora come oggi, ti trasformano in guru e in maître à penser. A patto che continui a seguire il politicamente corretto; anzi, che lo cavalchi. Ed ecco Erasmo prodursi nei Colloquia e, soprattutto, in quell’Elogio della follia ancora oggi adulato e citato. In quest’ultimo libro «ritraeva il clero, compresi cardinali e papi, come persone corrotte, conniventi, in malafede, avide di denaro e rapporti sessuali – tutto con umorismo, ovviamente». Nell’altro libro «la dose aumentava». In esso comparivano prostitute i cui migliori clienti erano monaci. O si consigliava a una giovane donna di evitare il convento se teneva alla propria verginità. Il tutto condito con «giochi di parole e battute licenziose». E l’Europa colta rideva. Vescovi compresi. Anche perché, lo ricordiamo, Erasmo scriveva in un latino raffinato, cosa apprezzatissima dagli umanisti. Pure dal papa Leone X, cui Erasmo non mancò di dedicare la sua traduzione del Nuovo Testamento, opera che («nonostante i molti errori», fa notare Stark) fu gradita dal «pontefice umanista».
Nel 1514 comparve a Parigi una parodia, Julius exclusus, nella quale tutti riconobbero la mano di Erasmo. Lui negò sempre, ma ebbe cura di non farlo mai in modo eccessivamente convincente. Nella farsa, il da non molto tempo defunto Giulio II (il Papa di Michelangelo) si presenta alle porte del Paradiso ma san Pietro lo caccia. Allora Giulio minaccia di scomunica san Pietro e gli rinfaccia di aver guidato una Chiesa di morti di fame, mentre con lui, Giulio II, essa era diventata ricchissima e potente. Scrive Stark che «Erasmo fece molto per creare un clima d’opinione elitario favorevole a riforme immediate e radicali. Ovviamente, quando giunse il momento d’agire, egli non fu disposto a rompere definitivamente con Roma». Eggià: «Era divenuto l’intellettuale più famoso d’Europa, corrispondente di re e cardinali – uno status elevato che era restio a mettere a rischio». Ma c’è anche qualcos’altro. Agli umanisti del XVI secolo la religione non importava più di tanto. «Quasi tutti costoro, all’inizio, avevano accolto con entusiasmo Lutero, per poi fare marcia indietro velocemente». Le controversie teologiche – è questa la verità – erano per loro irrilevanti «perché legate a cose nelle quali loro non credevano più». Per loro, la mitologia greco-romana era «plausibile e interessante tanto quanto il cristianesimo». E ritenevano che le questioni teologiche al cuore del protestantesimo «potessero interessare solamente le masse superstiziose». Loro, gli intellettuali, la razza superiore. Forse per questo s. Francesco d’Assisi non voleva che i suoi frati studiassero. E consentì di istruirli solo a un santo: Antonio di Padova.
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