Anziché realizzare un unico diritto penale europeo, si è iniziato da ambiti che incidono direttamente nella sfera individuale e addirittura sulla libertà personale dei cittadini europei. Un rischio!
Da tempo l’Unione Europea si è data l’obiettivo di conservare e sviluppare in tutto il suo ambito territoriale uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Proposito meritorio, ma i modi e i mezzi messi in campo per attuarlo comportano il rischio che, in luogo di uno spazio di libertà a dimensione continentale, si realizzi una restrizione delle libertà individuali e delle relative garanzie all’interno di tutti gli Stati membri.
Il problema nasce dal fatto che svariate ragioni, a cominciare dalla nuova percezione del pericolo terrorista, hanno spinto l’Ue ad accelerare i tempi per realizzare anzitutto efficaci forme di cooperazione giudiziaria fra Stati in materia penale, con conseguente ribaltamento delle tappe di un logico percorso. Difatti, anziché mettere mano alla realizzazione di un unico diritto penale europeo, cioè alla sostanziale unificazione delle norme incriminatici nei vari Paesi, e alla omologazione delle connotazioni istituzionali degli organi chiamati ad applicarle, si è iniziato da ambiti che incidono direttamente su norme lato sensu procedurali con effetti immediati nella sfera individuale e addirittura sulla libertà personale dei cittadini europei.
Il Consiglio dell’Ue ha varato anzitutto una decisione-quadro sul mandato di arresto europeo, destinata a sostituire l’estradizione, tradizionale forma di collaborazione fra Stati in materia penale, e una proposta di decisione-quadro sulla introduzione del mandato europeo per la ricerca delle prove per consentire a tutti gli organi europei di ogni Stato membro a ciò deputati (in genere magistratura e polizia) di operare negli altri Stati in modo non troppo dissimile da quanto loro consentito in quello di appartenenza. Per rendere efficaci questi due strumenti si è attribuita ai giudici dei singoli Paesi una sorta di giurisdizione universale (estesa cioè all’intero ambito europeo) e, per ovviare alla mancanza di un comune diritto penale sostanziale, si è consentito ad ogni giudice di fare applicazione delle norme del proprio Paese, anche se diverse da quelle degli altri Stati, e di procedere nei confronti di fatti e condotte considerati reati dalle “sue” norme anche se non penalmente sanzionati nel Paese di commissione. In altri termini, per un gran numero di reati indicati, per di più assai genericamente, nelle decisioni-quadro, si è eliminato il principio fino ad oggi base della collaborazione fra Stati in materia penale: la cosiddetta doppia imputabilità. Questa, detto sommariamente, esige che
il fatto sia punibile tanto nel Paese dell’autorità giudiziaria procedente, quanto in quello dell’autorità giudiziaria richiesta di procedere all’arresto del condannato o dell’imputato, o di svolgere atti d’indagine.
Il concorso di queste due novità – la competenza universale di tutti i giudici europei e l’eliminazione della doppia imputabilità – rende non solo possibile, ma normale, che, ad esempio, un giudice finlandese possa perseguire un cittadino italiano per un fatto commesso in Italia (o in qualunque altro Paese europeo) e non previsto come reato dalla legge italiana (o dello Stato di commissione), ma considerato tale da quella finlandese.
Il mandato di arresto europeo avrebbe dovuto entrare in vigore il 1° gennaio 2004, ma i molti dubbi nel frattempo sorti al riguardo hanno fatto sì che molti Stati non abbiano provveduto a recepirlo, seguendo l’esempio dell’Italia, dove giuristi e politici ne sostengono l’incompatibilità con la nostra Costituzione per ragioni che coinvolgono anche il mandato europeo per la ricerca delle prove. Basti pensare al rilievo costituzionale della circostanza che il soggetto competente a emettere un mandato di arresto o a condurre un’indagine penale goda di una effettiva indipendenza o dipenda invece dal potere esecutivo e abbia, quindi, in ultima istanza, natura (o dipendenza) politica. Quanto meno nei Paesi della vecchia Europa occidentale questa indipendenza è assicurata, in forme equivalenti, alla magistratura giudicante, ma, a differenza di quanto avviene in Italia, dove la Costituzione assicura l’assoluta indipendenza di tutti i magistrati dal potere esecutivo e da ogni altro potere, non a quella inquirente, ai magistrati cioè della pubblica accusa, i più direttamente e immediatamente interessati all’utilizzo e alla emissione dei mandati.
Di ancora maggiore rilievo l’eliminazione del principio della doppia imputabilità, fino ad oggi ritenuto essenziale nei rapporti giudiziari penali fra Stati non per mera convenienza od opportunità, ma perché attiene ai diritti fondamentali di ogni singolo individuo. La doppia imputabilità è, difatti, estrinsecazione del principio nullum crimen, nulla poena sine previa lege, coessenziale ad ogni sistema degno di definirsi civile (significativamente in età contemporanea lo hanno trascurato solo il codice nazista e quello sovietico), evidentemente non rispettato nel caso del cittadino di un Paese europeo perseguito e arrestato per un fatto commesso nel suo Paese e lì non previsto come reato (è l’ipotesi più grave, ma non l’unica).
Si potrebbe obiettare che la perseguibilità a livello europeo è comunque condizionata dalla previa esistenza di una norma incriminatrice quanto meno nell’ordinamento giuridico del Paese procedente e che in quasi tutti gli ordinamenti vale la regola ignorantia legis non excusat, tradotto, in Italia, in norma positiva dall’art. 5 del codice penale. Tuttavia, proprio questa disposizione ha dato modo alla Corte costituzionale di approfondire l’essenza del principio che esclude la punibilità in assenza di una preesistente norma incriminatrice. La sentenza 24 marzo 1988 n. 364 ne ha stabilito l’illegittimità “nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile, atteso che il combinato disposto del comma 1 e 3 dell’art. 27 cost., nel quadro delle fondamentali direttive del sistema costituzionale desunte soprattutto dagli art, 2, 3, 25 comma 2, 73 comma 3 cost., le quali pongono l’effettiva possibilità di conoscere la legge penale quale ulteriore requisito minimo d’imputazione, che viene ad integrare e completare quelli attinenti alle relazioni psichiche tra soggetto e fatto, consentendo la valutazione e, pertanto, la rimproverabilità del fatto complessivamente considerato”.
Questi requisiti minimi di imputazione mancano totalmente nel caso, per restare all’esempio fatto, del cittadino italiano rispetto alle norme dell’ordinamento finlandese o del cittadino finlandese rispetto a quello italiano. Non per nulla i giudici italiani hanno tenuto conto della effettiva possibilità di conoscenza in particolare a favore di cittadini stranieri e, si badi, per fatti commessi in territorio italiano, quindi con una possibilità di conoscenza enormemente più elevata di quella, assolutamente inesistente, riscontrabile nella stragrande maggioranza dei casi nei quali le decisioni-quadro europee pretendono di escludere il presupposto della duplice imputabilità.
È probabile che la causa di questa eterogenesi dei fini (una riduzione degli spazi di libertà e delle garanzie ad opera di strumenti destinati invece a garantirli ed ampliarli) vada individuata nell’attuale deficit di democrazia delle istituzioni europee, caratterizzate da organi elettivi, che contano poco o niente, e non elettivi, che contano moltissimo. Poco da obiettare finché burocrati e tecnocrati si sbizzarriscono a stabilire la lunghezza dei cetrioli e la curvatura delle banane, ma quando si tratta di diritti e di libertà è giusto pretendere che ad occuparsene siano uomini che, in quanto rappresentanti dei cittadini e sottoposti alle elezioni al loro giudizio, hanno a guida delle loro scelte e decisioni una ben diversa scala di valori.
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