La recente e straordinaria scoperta dei crani di Dmanisi smentisce le certezze degli evoluzionisti. Una ulteriore dimostrazione che questa loro ipotesi non regge alle prove della scienza
«La ricerca non ha mai fine», diceva il filosofo della scienza Karl Popper e in effetti chi segue la teoria dell’evoluzione da quando è stata formulata per la prima volta da Charles Darwin nel 1859 lo può confermare a suon di prove. Generazioni intere hanno studiato sui libri di scuola che l’uomo deriva da un ipotetico primate di tipo scimmiesco che, a sua insaputa, per grazia ricevuta, ha avviato una serie di progressive trasformazioni dell’intera anatomia, che lo hanno condotto, per mutazione e per selezione naturale, ad un esito imprevisto: a diventare un essere intelligente e consapevole, capace di interrogarsi sul passato, sul presente e sul futuro. E tutto questo processo di “ominazione” – secondo questa concezione – è avvenuto lungo una linea diritta.
Ma quale “cespuglio”?
Negli ultimi anni questo percorso lineare di trasformazione, ritenuto senza causa e senza scopo, è stato ramificato a tal punto che è diventato un “cespuglio”. Perché? Perché i reperti fossili via via rinvenuti, a pezzi, in siti diversi del Pianeta, in epoche geologiche altrettanto distinte, hanno costretto gli evoluzionisti a continue revisioni della teoria. Rami più o meno lunghi si aggiungono nei cespugli genealogici per andare ad abbracciare ogni reperto, allungando la lista dei cosiddetti ominidi, non avendo informazioni dirette sulla loro possibile interfecondità. Infatti, nel regno animale e vegetale, individui diversi appartengono a una stessa specie se sono in grado di accoppiarsi e di generare prole a sua volta feconda. Oggi, per esempio, analizzando il DNA fossile, si è scoperto che l’Homo di Neanderthal e l’Homo sapiens, a lungo considerati solo parenti e appartenenti a specie diverse, dovevano invece essere interfecondi e quindi vanno inclusi in un’unica specie umana.
La recente scoperta di alcuni teschi a Dmanisi, in Georgia, a pochi chilometri da Tbilisi, ha tagliato ora diverse fronde, riducendo il cespuglio di nuovo a un unico ramoscello che unisce l’Australopiteco di oltre due milioni di anni fa all’Homo sapiens di oggi. Perché?
La chiave di tutto è un cranio, battezzato “skull 5”, portato alla luce già nel 2005 e che ora è stato abbinato con una mandibola scoperta ancora prima, che vi si incastra perfettamente. Questo esemplare di teschio così completo, comprensivo anche di dentatura, costituisce fino ad oggi il miglior teschio di Homo erectus adulto.
Erectus, habilis e rudolfensis in un unico cranio
L’eccezionalità e la novità dei teschi rinvenuti a Dmanisi, la cui scoperta ha meritato la copertina dell’autorevole rivista americana Science (ottobre 2013), è dovuta ad almeno tre fatti.
Il primo (che forse è anche il più importante) è che gli evoluzionisti affermano che l’Homo erectus, l’Homo habilis e l’Homo rudolfensis sono ominidi appartenenti a specie diverse, ma, per contro, in un cranio ritrovato a Dmanisi si trovano: lo spazio per un viso lungo come quello di un Homo erectus moderno (molto simile al nostro), lo spazio per un cervello piccolo (550 cm. cubici) come quello di un Homo habilis e una dentatura simile a quella di Homo rudolfensis; mai queste tre caratteristiche erano state rinvenute unite in un unico fossile.
Un’unica specie umana
Il secondo fatto eccezionale consiste nel ritrovamento di altri quattro crani completi di Homo nello stesso sito, molto diversi tra loro, ma appartenenti allo stesso periodo. Ora, se sono stati ritrovati nello stesso sito, è ragionevole pensare che appartengano a individui della stessa tribù, quindi della stessa specie.
Il prof. David Lordkipanidze, del Museo Nazionale della Georgia, insieme ai suoi collaboratori, ha fatto un’analisi comparata di alta qualità, con tecniche statistiche raffinate, dei tratti morfologici dei cinque crani e ha osservato che le loro differenze sono le stesse che si ritrovano tra gli esemplari noti delle diverse specie di Homo abbracciate dal “cespuglio” tante volte proposto dalla teoria evoluzionista: ergaster, habilis, erectus, rudolfensis. Allo stesso modo, il professore ha studiato le differenze tra i crani di scimpanzé e di scimmie bonobo, di oggi. Analogo il risultato: la variabilità presente nei cinque crani di Dmanisi è la stessa che si ritrova tra le scimmie. La conclusione è quella che abbiamo poc’anzi già cominciato a menzionare: le presunte specie diverse del genere Homo, che avrebbero preceduto l’Homo sapiens (e che sono scolpite su pietra in ogni Museo e vergate in grassetto su ogni libro di scuola, disposte in sequenza graduata per evidenziare il presunto progresso in percentuale di umanità), sono in realtà varietà o razze di un’unica specie, quella umana. Razze, non specie.
È come se gli evoluzionisti avessero messo in fila un odierno polinesiano (con il cranio molto piccolo), un odierno asiatico (con il cranio di medie dimensioni) e infine un odierno bavarese (con il cranio grande) e dicessero che sono tre specie diverse in cammino evolutivo. Falso! La collezione di varietà umane è come quella che esiste in tutte le specie; l’esempio più noto è dato dalle razze canine: dal bassotto al levriero, al pastore tedesco, al dobermann, sempre di cani si tratta.
Un problema di primogenitura
Il terzo fatto degno di rilievo è che l’età di questi crani della Georgia coincide con quella dei primi Uomini apparsi in Africa nordorientale, creando quindi un problema di primogenitura. I fossili africani sono sempre stati i più antichi come datazione e quindi si è sempre pensato, anche da parte degli evoluzionisti, che dall’attuale regione dell’Etiopia l’umanità si sia diffusa, a più ondate, verso l’Europa e verso l’Asia. Se però si rinvengono altrove reperti umani coevi se non più antichi ancora di quelli africani, la tesi non può più essere sostenuta. Dmanisi ha riacceso il dibattito anche all’interno del mondo accademico; si tratta di una gran brutta storia per gli amici evoluzionisti, alcuni dei quali si stanno muovendo per ridimensionare la portata dell’articolo apparso su Science, invocando ulteriori analisi e considerazioni.
Insomma, la teoria evoluzionista, oltre a tutte le problematiche che la affliggono (per esempio: come conciliarla con la genetica, che non ammette mutazioni casuali se non per generare tumori e malattie? E come si spiega l’origine del linguaggio simbolico? E come è nata la coscienza? Come è sorto il senso religioso? Perché l’Uomo cerca un senso?) varie volte segnalate sul “Timone” (ndr: basta inserire la parola evoluzionismo nel motore di ricerca dell’archivio del sito www.iltimone.org per trovare i numerosi articoli dedicati alla falle dell’evoluzionismo), con i ritrovamenti di Dmanisi perde ora un altro glorioso pezzo.
Ricorda
«La cosa più evidente è che [con la scoperta di Dmanisi] scompaiono in un sol colpo una serie di quegli “anelli di congiunzione” che erano stati così faticosamente ricostruiti […] ad hoc per supportare una teoria basata su cambiamenti graduali passati al vaglio della selezione naturale. Ci troviamo invece di fronte ad una storia diversa, quella di un antenato unico dal quale è poi disceso Homo sapiens ».
(Enzo Pennetta, Il cranio di Dmanisi: nonostante le smentite è un importante punto a sfavore della teoria neodarwiniana, cfr. bibliografia).
Per saperne di più…
David Lordkipanidze, A complete skull from Dmanisi, Georgia, and the evolutionary biology of early Homo, «Science», 342, 18 october 2013.
Umberto Fasol, Evoluzione o Complessità?, Fede & Cultura, 2010.
Enzo Pennetta, Il cranio di Dmanisi: nonostante le smentite è un importante punto a sfavore della teoria neodarwiniana, www.enzopennetta.it .
IL TIMONE N. 129 – ANNO XVI – Gennaio 2014 – pag. 50 – 51
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