Moriva 40 anni fa uno dei più originali poeti del ’900. La sua opera più famosa sono i Cantos. Ostile al potere della finanza internazionale, contrario all’entrata in guerra degli Stati Uniti, estimatore di Mussolini, venne internato in un campo di concentramento degli Alleati e poi rinchiuso in manicomio
Nella notte tra il 15 e 16 novembre 1945, dal campo di concentramento del Disciplinary Training Camp di Metato, presso Pisa, uscì una jeep su cui veniva trasportato un prigioniero sessantenne e ammanettato: era uno statunitense, di nome Ezra Pound e di professione poeta. Non è chiaro se si fosse costituito da sé al Comando alleato di Chiavari o se un partigiano lo avesse “prelevato”; ora, spossato dai molti mesi di carcerazione, in una gabbia all’aperto esposto a sole e pioggia, veniva trasferito a Roma e poi a Washington, per subire un processo per alto tradimento. Sfiorata per poco la condanna a morte, condannato all’internamento nel manicomio criminale di St. Elisabeth, dopo l’isolamento in una cella senza finestre, scontò la pena sino al 1958.
Che cosa aveva commesso? Tra il 1941 e il ’43, aveva pronunciato veementi discorsi contro l’intervento in guerra degli USA, dai microfoni di Radio Roma, schierandosi contro quella che gli parve la guerra “delle plutocrazie e degli usurai”. Ora scontava sulla propria pelle il peso delle proprie parole, diversamente da moltissimi poeti novecenteschi, irresponsabili di fronte alle ideologie o anche soltanto alle inevitabili scelte ideali o di campo. Da anti-nazista e anti-comunista, Pound aveva sostenuto che il vero nemico fosse il capitalismo internazionale, del quale tutti, ovunque, erano le vittime: «[essi, id est le “Banche”] lavorano giorno e notte per svuotarvi le tasche».
A guerra finita, gli psichiatri del tribunale giudicarono deliranti le sue affermazioni; appena rilasciato, anche per intervento di grandi poeti tra cui T.S. Eliot e Robert Frost, fece ritorno nell’amata Italia: Genova, Rapallo, Merano. Negli ultimi anni, il poeta optò per il silenzio: un mutismo pubblico da contrapporre alla frenesia linguistica dell’epoca. Morì a Venezia il 1° novembre 1972, due giorni dopo il proprio ottantasettesimo compleanno.
Una “guida alla cultura”
L’opera di Pound è una risposta poderosa alla sfida che il mondo moderno ha intentato alla poesia, «nel senso che i nuovi linguaggi scientifici, ma facilmente commerciali e pubblicitari, neutralizzano il linguaggio della poesia, banalizzando o ironizzando la sua serietà»: così Rodolfo Quadrelli, in una presentazione libraria organizzata dall’editore Vanni Scheiwiller, a Palazzo Sormani in Milano, il 24 novembre 1972. La serata poi divenne burrascosa per le tensioni tra i neofascisti presenti in sala e le dichiarazioni degli intellettuali di sinistra chiamati a presentare il libro.
Oggi sembrano questioni lontane e superate, ma è perché gli intellettuali contemporanei sono lontani (dal reale) e anche superati (nella loro resa alla tecnologia soft, ai surrogati della speranza e dell’impegno): su Pound si continuano a scrivere libri, come se non fosse passato quasi mezzo secolo. Tra le iniziative più intelligenti, quella di Cesare Cavalleri che per le edizioni Ares offre una Collana di pubblicazioni “poundologiche” tra cui spicca Il Dio di Ezra Pound (2011, pp.168 € 14) e la curatela di Luca Gallesi, il quale da anni introduce testi preziosi al pubblico italiano: da ultimo, la Carta da visita (appena uscita per Bietti, 2012, pp. 103 € 14).
Tutta la sua poetica matura, cioè l’enorme mole dei Cantos (109 lunghi poemetti in verso libero plurilingue e pluristilistici, scritti e pubblicati tra il 1917 e il 1959) e gli scritti/studi “su tutto”, ruota intorno alla ricerca della giusta via per l’uomo e la società, e si scaglia con veemenza contro il vizio dell’usura: «with Usura contra naturam » (Canto XLV). Il poeta americano fu un nomade, un giramondo frequentatore delle belle arti perché riteneva «indispensabile strappare le erbacce, se il Giardino delle Muse deve restare un giardino», poiché «l’incompetenza è denotata dall’uso di troppe parole» e soprattutto «se la letteratura di una nazione declina, la nazione si atrofizza e decade». Nel suo Guida alla cultura (1938), Pound fece altri piccoli doni alla civiltà occidentale; mentre discuteva dei libri di testo scolastici del Regime, trascrisse una Preghiera per la pioggia dalla liturgia cattolica, che oggi stenteremmo a trovare altrove: «O Dio, nel quale viviamo e ci muoviamo e siamo, concedi una pioggia ristoratrice, affinché noi, aiutati così a sufficienza nelle nostre necessità terrene, possiamo tendere in alto con grande fiducia verso le cose eterne. Così sia».
La poesia è un’arte
Nato nel 1885 in Idaho (USA), Ezra Loomis Pound si trasferì sin da giovane in Europa: a Venezia pubblicava a proprie spese i primi versi. Di cultura eclettica, attratto dalla letteratura provenzale e da quella confuciana, da Londra promosse la nascita di movimenti letterari d’avanguardia come Imagismo e Vorticismo: oggi i più lo amano per questo motivo.
Frequentò Joyce, Eliot, Yeats. Era un medioevalista anti-capitalista, innamorato del corporativismo italiano istituito da Mussolini, che incontrò di persona il 30 gennaio 1933: l’anno successivo scrisse il saggio Jefferson e/o Mussolini. Benché alieno dalla politica, ideò una propria teoria su moneta e prezzo, derivata dalla pastorale di sant’Antonino da Firenze, dai Paschi di Siena e dalle Reducciones gesuitiche del Paraguay: era l’economia “ortologica” (di cui scelgo un brano famoso, v. il riquadro), illustrata allora persino all’Università Bocconi, per interessamento di Piero Sraffa; ma il pamphlet contro il sistema bellicista intitolato L’America, Roosevelt e le cause della guerra presente, come già detto sopra, gli costò l’imprigionamento nella gabbia del campo di concentramento dove scrisse gli stupendi Canti pisani. Lì mostrò definitivamente, senza volerlo, che la poesia è una dura vocazione d’arte, ed esige l’uomo per intero. Che sappia ricominciare a leggere dall’ABC, senza schematismi, e tenti di nominare gli inferni e i paradisi del mondo attuale.
Oggi però lo ricordiamo per un’altra vena: per due componimenti lirici introduttivi al mistero del Natale, dal punto di vista di un protestante che via via nascose nell’intimo la propria fede; s’intitola La Grazia prima della poesia, e apre la prima raccolta poundiana (A lume spento, 1908): «Dio Signore del cielo che con misericordia vi adornate / e alternate il rotolo da preghiera della notte e della luce / l’Eternità vi appartiene, nella cui vista / i nostri giorni sono come pioggia che si riversa cadendo nel mare, / come gocce bianche e brillanti su un mare di piombo. / Fate che la mia poesia per questa grigia gente sia: / come gocce sognanti e brillanti e cadenti che catturano il sole, / specchi evanescenti di opale in ognuna / di tutto il suo splendore simili nella loro caduta, / così, mie audaci poesie, cercate una morte come questa» nella quale vi sono versi già indicatori di un percorso: l’artista riconosce il Creatore, e gli chiede di donargli la dote del talento.
Il secondo è il Prologo di Natale (edito in Personae, 1926; ma già del 1908) che qui trascriviamo come regalo natalizio ai lettori:
«Eco degli Angeli che cantano Exultasti: Nasce il silenzio da molte quiete
così la luce delle stelle si tesse in corde con cui le Potenze di pace fanno dolce armonia.
Rallegrati, o Terra, il tuo Signore
ha scelto il suo santo luogo di riposo.
Ecco, il segno alato
si libra sopra quella crisalide santa.
L’invisibile Spirito della Stella risponde
loro:
inchinatevi nel vostro canto, potenze
benigne.
Prostratevi sui vostri archi di avorio e oro!
Ciò che conoscete solo indistintamente
è stato fatto
su nelle corti luminose e le azzurre vie:
inchinatevi nella vostra lode;
perché se il vostro sottile pensiero
non vede che in parte la sorgente di misteri
pure nei vostri canti, siete ordinati di
cantare:
“Gloria! Gloria in excelsis
Pax in terra nunc natast”.
Angeli, che proseguono con il loro canto:
Pastori e re, con agnelli e incenso
andate ed espiate l’ignoranza dell’umanità:
con la vostra mirra rossa fate sapore
dolce.
Ecco, che il figlio di Dio diventa l’elemosiniere
di Dio.
Date questo poco
prima che egli vi dia tutto».
«Che l’uomo lavori quattro ore per la paga e poi, se ha ancora voglia di lavorare, che lavori come un artista o un poeta, che abbellisca la casa o curi il giardino, che faccia ginnastica per stirarsi le gambe o curvi la schiena su un tavolo da biliardo o stia seduto a fumare. Così facendo si godrebbe molto di più la vita […]. So per esperienza che si può vivere infinitamente meglio con pochissimo denaro e molto tempo libero che non con più denaro e meno tempo. Il tempo non è denaro, ma è quasi tutto il resto»
(Ezra Pound, L’ABC dell’economia, 1933)
IL TIMONE N. 118 – ANNO XIV – Dicembre 2012 – pag. 48 – 49
Riceverai direttamente a casa tua il Timone
Se desideri leggere Il Timone dal tuo PC, da tablet o da smartphone
© Copyright 2017 – I diritti delle immagini e dei testi sono riservati. È espressamente vietata la loro riproduzione con qualsiasi mezzo e l’adattamento totale o parziale.
Realizzazione siti web e Web Marketing: Netycom Srl