La catastrofe dello tsunami natalizio 2004 nel Sudest asiatico ha scatenato “domande” giornalistiche ai preti. Perché Dio ha permesso questo? Dov’era? In genere hanno risposto, sì, i preti (quando lo hanno fatto), ma in modo abbastanza imbarazzato. Più sicuri (e pedanti) sono stati i filosofi da terza pagina, ognuno sparandole pirotecnicamente in cinerama.
Ma non sono le risposte ciò che qui interessa, bensì le domande. Per la precisione, il fatto che siano state poste. Dopo gli entusiasmi post-conciliari sulla fede ormai diventata «adulta» e, quindi, non più bisognosa di stampelle sensibili come le processioni riparatrici o propiziatrici, le suppliche per ottenere l’intercessione dei santi, le veglie e le mortificazioni e i digiuni e i «fioretti» per venire scampati dalle disgrazie, questo è, dunque, il risultato: perché Dio ha permesso questo? dov’era?
Si balla e si sballa, si canta e si ride e ce la si spassa on tour senza mai occuparsi di Dio e, anzi, lo si espunge dagli atti pubblici sostituendolo col vitello d’oro della «Iaicità»; si cassano i crocifissi e i presepi, si abolisce l’apostolato perché «inaccettabile proselitismo», non si va in chiesa per Natale (che è, fino a prova contraria, una festa religiosa e cristianissima) ma si preferiscono le Maldive; si offende e si deride in tutti i modi il cristianesimo e delle sue prescrizioni si fa strame in nome di ogni istinto individuale diventato «diritto» costituzionale con tanto di mutua. Poi, alla tragedia, si manda il conto a Dio, tanto che i rappresentanti ufficiali delle varie religioni devono te-nere conferenze stampa per cercare di spiegare, ognuno dal suo punto di vista ovviamente, cosa c’entri Dio con lo tsunami. Beh, questo è puro infantilismo, altro che «fede adulta».
L’Occidente cristiano (sì, perché la sua superiorità tecnologica e – adesso sfondo il muro del politicamente corretto – culturale ne pongono le responsabilità al di sopra di tutti gli altri) è ripiombato nell’asilo-giardino d’infanzia. Anzi, peggio, perché, in altri tempi, Attila e i suoi Unni erano chiamati non a caso «flagello di Dio»: i cristiani di quei secoli, di fronte alla sventura, non incolpavano Dio ma sé stessi e i loro peccati, vedevano Dio, padre buono ma severo, correggere usando la frusta, il «flagello». Oggi, dopo millecinquecento anni di cristianesimo, i post-cristiani sono nella condizione dei bambini capricciosi e irresponsabili che non sono più in grado nemmeno di riconoscere la punizione (anche se non è detto che lo tsunami sia stato effettivamente una punizione divina). Siamo, dunque, alla situazione descritta dalla Bibbia, quando Dio dice al profeta Giona che gli abitanti di Ninive non sono capaci di distinguere la destra dalla sinistra, e per questo non li si può incenerire (anche perché hanno creduto alla predicazione di Giona e fatto penitenza). Solo che oggi non c’è un Giona, e quelli che dovrebbero farne le veci, intimiditi, si arrampicano sugli specchi per aggirare l’argomento.
Allora, direte voi, insomma: quello tsunami era una punizione divina? Francamente non lo so. Ma posso fare un parallelo con altre grandi disgrazie collettive avvenute nella storia (avvertendo, tuttavia, che si tratta di analogie, e che queste lasciano pur sempre il tempo che trovano). Per esempio, nei primi tre secoli della nostra era i cristiani vennero sterminati in gran numero dalle persecuzioni romane: era gente innocente, senza dubbio, e sicuramente cara a Dio; tra loro c’erano, per giunta, dei bambini, che subirono torture e morti atroci (come essere sbranati dalle belve nel circo o venire crocifissi e, cosparsi di pece, arsi vivi, mentre gli spettatori si scompisciavano dalle risate). Ma i Padri della Chiesa furono unanimi: «il sangue dei martiri è seme di cristiani». Infatti, in soli tre secoli la nuova religione partita da una provincia marginale e da un fallimento all’apparenza irremissibile (il fondatore ucciso e i suoi uomini dispersi) aveva conquistato l’Impero romano, cioè tutto il mondo civile. Dio permette le sciagure perché ne venga, prima o poi, un maggior bene. E poi, nella prospettiva di fede, la vita che conta è quella eterna: solo in un orizzonte asfitticamente edonistico l’esistenza terrena è tutto (anche se, va detto, è piacevole soltanto per pochi).
Nelle disgrazie collettive emerge il vero essere di ciascuno: c’è chi si scopre eroe e c’è, ahimè, chi si rivela sciacallo. Com’è puntualmente avvenuto per la tragedia di cui discorriamo. Lo dice, infatti, il Vangelo che è necessario che avvengano gli scandali (ma, aggiunge, guai ai loro creatori) e che Cristo è venuto «perché siano rivelati i pensieri di molti cuori». Perciò, anche lo tsunami del 26 dicembre 2004 potrà servire, come minimo, per riflettere. Anche se, di fronte alla ri-scoperta che «siamo polvere», qualcuno sceglierà la via di Lorenzo il Magnifico («…chi vuoi esser lieto sia, del doman non v’è certezza …»), qualcun altro ne trarrà le giuste conseguenze.
Se la vita eterna è più importante di quella terrena (per tutti, non solo per i credenti), bisogna che almeno i preti cattolici ricomincino, finalmente, a prendere sul serio le pluridecennali esortazioni del Papa alla rievangelizzazione smettendo di ammannire aria fritta nelle omelie e decidendosi a parlare dei Novissimi: morte, giudizio, inferno, paradiso. Un tempo la Chiesa faceva pregare così: a morte improvisa libera nas, Damine. E faceva di tutto perché la morte non fosse, come minimo, una sorpresa. O un fatto di cronaca che accade solo agli altri. Va ripresa, e subito, la predicazione sulla dottrina del Peccato Originale, e chissenefrega degli sberleffi a mezzo stampa dei laicisti di professione. Perché, come diceva Pascal, se tale Peccato è incomprensibile, è più incomprensibile la vita senza di esso.
E, come diceva Evelyn Waugh, senza Dio non ha neanche senso. Certo, il cristianesimo non spiega il problema del male (se non, appunto, con l’incomprensibile Peccato Originale): Cristo non ha tolto la croce ma insegnato a portarla. Tuttavia, fatevi un giro nelle altre religioni, e guardate come risolvono, esse, il problema del male. E poi ditemi qual è quella che ha la soluzione migliore.
Ve lo dico io: la nostra.
IL TIMONE – N.40 – ANNO VII – Febbraio 2005 pag. 20 – 21