I montagnard (ovvero «gente della montagna»), fieri e combattivi, costituiscono uno dei popoli indigeni più antichi di tutto il Sud-Est asiatico, stanziati in Indocina da più di duemila anni. Divisi in una trentina di differenti tribù, abitano le cosiddette Terre Alte al confine tra Vietnam e Cambogia, e la maggior parte di loro sono cristiani, cattolici e protestanti, convertiti attraverso i missionari negli ultimi due secoli. Alla fine della colonizzazione francese, cinquant’anni fa, si stima che fossero circa tre milioni. Oggi, decimati dalla feroce persecuzione dei regimi comunisti della regione, i montagnard, uccisi o inghiottiti dalle spaventose prigioni vietnamite, si sono ridotti a meno di un milione di individui. Un genocidio silenzioso di cui scrivono in pochi (fra questi, l’utile Rapporto annuale sulla libertà religiosa nel mondo, a cura di Aiuto alla Chiesa che Soffre). E costellato da episodi di eroismo.
Dai primi mesi del 2004 il governo di Hanoi ha rafforzato nella zona il suo apparato repressivo militare-poliziesco, impedendo l’accesso ai giornalisti e agli osservatori umanitari internazionali. Secondo informazioni fornite dalla Montagnard Foundation, i cristiani che vengono trovati in possesso di un crocifisso, di un’immagine sacra, ma anche di un telefono cellulare, di una radio o di un giornale straniero, vengono immediatamente arrestati e spesso sottoposti a tortura; non di rado, sono costretti ad abiurare la propria fede, obbligati a bestemmiare o a bere il sangue di animali sgozzati, secondo un barbaro rituale pagano.
Alla vigilia delle celebrazioni pasquali dell’anno scorso i montagnard decidono di reagire e di organizzare manifestazioni di protesta: partendo dai loro sperduti villaggi, si recano nei capoluoghi provinciali, dove si riuniscono a pregare pubblicamente davanti alle sedi del Partito comunista vietnamita. Lo slogan è «Moak Hrue Yesus Kgu Hdip»
(Felice giorno. Cristo è risorto). Secondo fonti locali, sono presenti alle manifestazioni in 130mila. I governativi usano le armi, causando circa quattrocento morti, che si aggiungono alle decine di migliaia di moderni «martiri della fede» provocati da una persecuzione che dura ormai da tre decenni. Da quando cioè la caduta di Saigon, il 25 aprile 1975, ha in pratica consegnato tre Paesi, l’intero Vietnam, il Laos e la Cambogia, alle forze comuniste che ancora oggi sono al potere.
Torniamo indietro di tre anni. È il17 maggio 2001. Sono le 5 di mattina. Mentre padre Tadeus Nguyen Van Ly si appresta a celebrare messa nella sua chiesa di An Truyen, nei pressi di Huè, ben seicento agenti di sicurezza vietnamiti circondano la chiesa e vi fanno irruzione poco prima dell’inizio della celebrazione. I fedeli presenti che cercano di difendere padre Tadeus sono malmenati e respinti. Il sacerdote sarà poi condannato, il successivo 19 ottobre, a vent’anni di detenzione per «aver minacciato l’unità della nazione e per aver disobbedito a un ordine di detenzione amministrativa». La sua colpa? Aver inviato tre mesi prima al Congresso americano una lettera in cui chiedeva al governo degli Stati Uniti di non ratificare il trattato commerciale con il Vietnam, per le gravi violazioni dei diritti umani e della libertà religiosa in quel Paese.
Arrestato una prima volta dopo meno di due settimane e messo agli arresti domiciliari, padre Tadeus era stato interdetto dall’esercizio delle funzioni religiose nella sua parrocchia e nel territorio della provincia. Il giornale governativo Hanoi Moi lo accusa di voler provocare disordini sociali: le sue «provocazioni» sono «parte di un complotto per destabilizzare il regime e causare instabilità politica». Il coraggioso prete vietnamita, che tra gli anni ’70 e ’90 aveva già passato dieci anni in carcere, vedrà poi ridotta la sua pena di cinque anni.
La persecuzione dei montagnard e il calvario di padre Tadeus sono solo due esempi tra i più significativi che documentano la spietata e perdurante persecuzione contro i cristiani (e non solo) attuata dai regimi che, sia pure in forme diverse rispetto agli anni ’70 e ’80, ancora spadroneggiano nell’ex Indocina. A cavallo tra il 1978 e il 1979, quando apparve chiaro che le promesse di pacificazione dei comunisti che si erano impadroniti del potere erano “aria fritta”, ci fu la terribile tragedia dei boat people: un milione e mezzo di persone in fuga su fragili imbarcazioni verso la libertà e la democrazia. Un quarto di loro non arriverà mai a destinazione, dispersi in mare o trucidati dai pirati. Gli altri raggiungeranno Paesi disposti ad accoglierli (tremila in Italia) e a consentire loro di vivere con dignità. Chi è rimasto laggiù ha cercato di conservare la fede, in mezzo a mille difficoltà.
In Cambogia, dove il sanguinario regime del «socialismo agrario» di Poi Pot ha causato nel decennio 1975-1985 quasi due milioni di vittime, riducendo di un quarto l’intera popolazione del Paese e distruggendo quasi totalmente la presenza della Chiesa cattolica, la vita è lentamente ripresa. Su quasi tredici milioni di abitanti, si stima che i cristiani siano oggi circa centomila, di cui ventimila cattolici. Anche nel Laos, ma in rapporto a una popolazione più ridotta, pari a sei milioni di abitanti, i cristiani sono circa centomila, di cui quarantamila cattolici. Infine nel Vietnam riunificato, che conta ottanta milioni di abitanti, i cristiani sono quasi sette milioni (1’8,5 per cento della popolazione), di cui cinque milioni e mezzo cattolici. In tutti e tre i Paesi, dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Unione sovietica, punto di riferimento ideologico e partner privilegiato per decenni, sono state approvate negli anni Novanta nuove Costituzioni, apparentemente più liberali e che sulla carta garantiscono la libertà religiosa. In realtà, non è così. O meglio, è una libertà religiosa «sotto sorveglianza», sbandierata più che altro per ottenere credito e vantaggi commerciali sul piano internazionale, ma che all’atto pratico è sottoposta a notevoli e gravi restrizioni (il Vietnam ha allacciato normali relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, l’antico «invasore», ma non ancora con la Santa Sede, che anzi è stata accusata di recente di «ingerenza» negli affari interni della repubblica asiatica).
In Cambogia i cristiani incontrano ostacoli e difficoltà soprattutto a livello locale. La posizione dei nuovi governanti post-khmer rossi è contraddittoria: l’articolo 43 della Costituzione, entrata in vigore il 24 settembre 1993, prevede la libertà di credo e di culto, ma a condizione che non «violi la sicurezza e l’ordine pubblico» e «non danneggi altre religioni»: formule sufficientemente generiche e insidiose per consentire qualsiasi intervento restrittivo delle autorità. Sempre il governo di Phnom Penh apprezza l’opera «sociale» e «umanitaria» dei missionari, ma nello stesso tempo non impedisce atti di teppismo contro chiese e case di cristiani. Segno incoraggiante, tuttavia, l’aver consentito l’ordinazione di quattro nuovi sacerdoti dopo più di vent’anni!
Anche nel Laos in via di principio è garantita la libertà religiosa, ma sono frequenti episodi di intolleranza verso i cristiani, accusati di professare una «religione straniera imperialista». Le autorità favoriscono il buddismo nella sua versione theravada, praticato dal 60 per cento della popolazione e considerato filogovernativo, mentre con violente campagne persecutorie si prefiggono l’obiettivo di cancellare la presenza della fede cristiana nel Laos. La Chiesa cattolica non può possedere o gestire strutture socio-assistenziali (ospedali, ospizi, scuole), nessun rito o gesto di preghiera può essere effettuato fuori dalle chiese. Arresti, persecuzioni e difficoltà di culto anche per i protestanti e restrizioni pure per i buddisti non «allineati». È praticamente impossibile per tutte le confessioni stampare libri religiosi.
E veniamo al Vietnam, il Paese ancor oggi simbolo, anche per tanti credenti di casa nostra, dell’affrancamento del Terzo mondo dall’imperialismo yankee, il Paese «liberato» che ha cacciato gli americani dal suo suolo. Ebbene, anche qui c’è una Costituzione, approvata nel 1992, che all’articolo 70 garantisce la libertà religiosa, ma è un diritto conculcato nella realtà e che spesso si riduce alla sola pratica individuale del culto. Norme successive, anche recenti, prevedono una serie di rigidi controlli e di limitazioni. Così, in tutto il Vietnam ci sono solo sei seminari, nei quali possono entrare dieci seminaristi per diocesi ogni due anni. I candidati al sacerdozio, ma anche chi vuole entrare in convento, deve superare appositi esami che dimostrino la «fedeltà allo Sta-to». I nuovi parroci a loro volta devono ottenere l’approvazione statale, mentre la nomina dei vescovi è una procedura complessa e difficoltosa, che lascia vacanti le sedi episcopali per anni.
Non basta. Ufficialmente, come nel caso di padre Tadeus, non si è mai arrestati e perseguitati perché ci si professa cristiani, ma per aver messo in pericolo «la sicurezza nazionale» e aver condotto attività di «propaganda contro il regime socialista». L.:articolo 66 del codice penale «proibisce a qualsiasi individuo di organizzare o di prendere parte a incontri per creare disordine sociale», e «per qualsiasi tipo di riunione deve essere richiesto un permesso speciale alle autorità locali, a cui va presentata anche la lista completa dei partecipanti». Insomma, il cristiano non deve rendersi «visibile», testimoniare la sua fede, esprimere i suoi giudizi sulla realtà. Assistiamo in definitiva, nei tre Paesi dell’area indocinese, a una persecuzione sottile, «moderna», che non impedisce di professarsi cristiani e di esercitare il culto, ma esige il controllo delle coscienze.
Un’ultima notazione. Gli iscritti al partito comunista del Vietnam non possono per legge aderire a un credo religioso. Però un numero significativo di funzionari e di militanti è rimasto colpito dalla figura di Cristo e si è convertito. «Atei devoti» che scoprono il fascino della proposta cristiana e dei valori che propone.
IL TIMONE – N. 41 – ANNO VII – Marzo 2005 pag. 39 – 40 – 41