Dalla storia alla psicologia, dalla filosofia all’antropologia i risultati convergono: le diverse prospettive etiche dei popoli hanno una base comune. A conferma di quanto afferma la teoria della legge naturale
Che cosa rende legittimo il processo di Norimberga ai gerarchi nazisti (tralasciando i suoi esiti, che molti ritengono discutibili)? Visto che essi applicavano la legge, con quale giustificazione è stato possibile processarli? È legittimo processarli per “crimini contro l’umanità”?
Ma chi identifica i crimini contro l’umanità? Se si accetta il cosiddetto positivismo giuridico, il bene, il male ed i crimini sono fissati di volta in volta dalle leggi e dalle maggioranze.
Il problema, però, è che leggi umane possono essere ingiuste e le maggioranze possono avere torto: per esempio, le leggi di Hitler erano ingiuste, ed egli è stato eletto con regolari elezioni democratiche e, quando poi ha preso il potere, la maggioranza dei tedeschi era indifferente (forse persino favorevole), alle sue teorie razziali. Insomma, una maggioranza può decidere lo sterminio della minoranza.
La tradizione della legge naturale
C’è però una tradizione morale-giuridica opposta al positivismo giuridico: quella della legge morale naturale, cioè l’insieme dei principi morali immutabili validi sempre per ogni uomo, che la ragione è in grado di cogliere da sola: «non ridurre in schiavitù», «non commettere atti pedofili», «non assassinare», e così via.
In ambito letterario bisogna citare al riguardo almeno l’Antigone di Sofocle. Interrogata da Creonte, re di Tebe, che chiede ad Antigone perché abbia trasgredito le leggi della città seppellendo suo fratello (che è morto combattendo contro Tebe) invece che lasciarlo divorare dagli avvoltoi, Antigone risponde che ci sono delle «leggi non scritte» superiori a quelle di qualsiasi Stato.
La dottrina della legge naturale ha ricevuto nella storia della filosofia il sostegno di molti autori e filosofi anche pagani, come, per esempio, Aristotele, Cicerone o Musonio Rufo; è stata ripresa in epoca medievale, per esempio da Agostino e Tommaso; ha poi avuto una declinazione moderna, basta pensare a Locke, a Grozio e (in un certo senso) a Kant; e vede oggi una rinascita, per esempio con Finnis, Grisez, Rhonheimer e altri.
In effetti, anche se spessissimo si dice che le morali umane sono totalmente divergenti, gli uomini sono naturalmente capaci (anche se non sempre ci riescono) di scoprire dei principi morali validi ovunque: lo testimonia una certa convergenza, per esempio, del Decalogo di Mosè e del Codice babilonese di Hammurabi, o la ricorrenza di molti principi morali in culture molto diverse (cinese, indiana, cristiana, greca, sassone, norvegese, ecc.) che C.S. Lewis ha documentato ne L’abolizione dell’uomo (ma si potrebbero citare al riguardo diversi altri studiosi).
Una teoria psicologica odierna Al riguardo può essere utile anche notare, nell’ambito della psicologia cognitiva, la progressiva dif-fusione di una teoria che, alla luce di numerosi riscontri empirici, sostiene l’esistenza di una capacità morale innata nell’uomo: diversi sperimentatori hanno sottoposto dei dilemmi morali a soggetti di culture diverse e, analizzando migliaia di risposte (molte di esse sono state raccolte qui http://wjh1.wjh.harvard.edu/~moral/index.html), hanno registrato una certa convergenza nel giudizio morale. Così, in contrapposizione alle concezioni relativiste, diversi autori stanno affermando l’esistenza di una naturale e universale capacità umana di comprendere in modo generico il bene/male. Per esempio, Marc Hauser dice che la mente umana è dotata di una capacità che le consente di acquisire una «grammatica morale universale», cioè un insieme di principi morali che risultano comuni agli uomini. In effetti, è emerso empiricamente che i bambini sono molto presto in possesso di norme morali: ad esempio, «Ogni bambino sa che è male uccidere,
perché il rispetto per la vita e il dolore per la morte sono risposte empatiche naturali, anche se non sempre universalmente e coerentemente conservate» (L. Kohlberg).
E «la quasi totalità dei bambini, anche all’età di quattro anni, ritiene che vittimizzare qualcuno sia un atto in sé profondamente sbagliato» (D. Bacchini).
Insomma, già quando ha circa un anno e mezzo di età, il bambino possiede alcuni criteri morali, grazie ai quali distingue tra «come qualcosa (comprese le relazioni con le persone) è» e «come dovrebbe essere», e ciò «è dovuto solo in minima parte all’approvazione o ai rimproveri dell’adulto» (L. Barone – D. Bacchini).
E a tre-quattro anni i bambini sono in grado di distinguere le norme convenzionali da quelle morali (J. Mikhail), e riescono a fare questa distinzione anche i bambini cresciuti in ambienti degradati e svantaggiati (J. Smetana – M. Kelly – C. Twentyman).
Ora, per Hauser e per Mikhail (solo per citare due nomi) mentre l’acquisizione di questa conoscenza
morale molto generica dipende da una nostra capacità innata, viceversa lo sviluppo e l’articolazione dettagliata di questi principi etici dipendono dall’esperienza e possono essere impediti dall’ambiente in cui si vive, ed è per questo motivo che questi principi vengono diversamente sviluppati e applicati dai singoli e dalle culture: per questo ci sono poi molte differenze tra le concezioni morali.
Apparente diversità morale
Peraltro, ribadiamolo, il pluralismo etico c’è, ma non è davvero babelico-radicale come si dice spesso: alcuni comportamenti altrui i cui criteri morali ci appaiano totalmente contrari ai nostri, in realtà, a volte, non sono ispirati a valori davvero contrastanti, bensì a valori comuni ai nostri.
Per esempio, c’è un famoso aneddoto di Erodoto, che viene spesso ricordato come esempio di presa di coscienza del relativismo.
«Una volta Dario, quando era re, convocò i Greci […] e domandò loro a quale prezzo avrebbero acconsentito a mangiare i cadaveri dei loro genitori; quelli dichiararono che per nulla al mondo l’avrebbero potuto fare». Poi Dario convocò i Callati, che usavano divorare i loro genitori morti, e chiese loro «per quale prezzo si sarebbero indotti a bruciare il cadavere del loro padre; e quelli a gran voce lo pregarono di non dire cose così sacrileghe. Tanta è la forza della consuetudine». Ora, la conclusione di Erodoto è moralmente relativista «ma non fa venir meno la chiara percezione nel lettore di come sia i Greci sia i Callati abbiano in comune un valore fondamentale, quello del “rispetto” per i genitori, un valore condizionato sì, ma solo culturalmente, solo cioè nelle sue dimensioni estrinseche, non nella sua struttura fondamentale» (D’Agostino).
Già Scheler rifletteva sul divieto dell’assassinio rilevando che esso è universale, e ciò che varia è piuttosto la concezione di chi sia uomo e dunque il giudizio su quale uccisione di esseri umani sia da considerare assassinio: chi pensava che gli schiavi non fossero esseri umani non considerava assassinio la loro uccisione.
Ancora, la pratica eschimese di uccidere o abbandonare gli anziani ammalati risponde a un principio etico di tutela del bene della collettività che anche gli occidentali, generalmente (salvo eccezioni), condividono; la differenza sta nel fatto che alcuni (non tutti) occidentali rifiutano di considerare il bene della collettività soverchiante rispetto all’inviolabilità della persona (anche malata) e/o al dovere morale di accudire i deboli.
Inoltre, sempre per gli eschimesi, l’infanticidio è giustificato quando non si possiedano risorse sufficienti per la cura dei figli, ma, come dice Hauser, questo non toglie «ciò che è universale per tutti gli esseri umani […]: in tutte le culture, tutti si aspettano che i genitori si prendano cura della loro prole. […] ciò che varia tra le culture sono le condizioni che consentono eccezioni alle regole, comprese quelle relative all’abbandono».
Insomma, alcuni valori non mutano, bensì cambia il modo di gerarchizzarli ed incarnarli.
Anche quando una morale si discosta profondamente dalle altre, lo fa spesso sulla scorta di valori comuni: il razzismo, ad esempio, può essere insegnato facendo leva (malamente) sul valore della purezza.
Natura come fine
Tornando direttamente al discorso sulla legge morale naturale, va sottolineato che in questo contesto il termine natura va inteso nel senso indicato da Aristotele (Politica, 1252 b 32), come sinonimo di fine di una cosa. Perciò il termine natura (in questo contesto):
– non designa il mondo animale, vegetale, minerale;
– non designa tutto ciò che accade all’uomo dalla nascita (un uomo può essere cieco o sordo);
– bensì designa solo qualche aspetto di ciò che gli accade dalla nascita: indica i fini che gli accade di avere dalla nascita (ma potremmo anche dire dal concepimento).
Dunque questi principi morali si chiamano legge naturale perché prescrivono i fini (cioè la natura) di quell’essere che è l’uomo. Ma quali sono questi fini? Approfondiremo il discorso fra un mese. â–
Per saperne di più…
Giacomo Samek Lodovici, L’emozione del bene. Alcune idee sulla virtù, Vita e Pensiero, 2010, pp. 218-229.
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