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12.12.2024

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Fino alla fine del mondo. Intervista a don Francesco Motto
9 Gennaio 2015

Fino alla fine del mondo. Intervista a don Francesco Motto

FINO ALLA FINE DEL MONDO
Nelle lettere, ancora non del tutto edite, emerge la straordinaria personalità di don Bosco, i suoi pensieri, desideri, delusioni, gioie e dolori, amici e nemici. E, poiché pensava in grande, volle fare apostolato fino ai confini del mondo. Ne parliamo con l’esperto di storia salesiana don Francesco Motto

Volontà indomita, intuizioni formidabili, fiducia nella Provvidenza, lavoro indefesso. Sono solo alcuni tratti di Don Bosco visti con gli occhi di don Francesco Motto, sacerdote salesiano, socio fondatore, per dieci anni segretario di coordinamento e per venti direttore dell’Istituto Storico Salesiano di Roma nonché della rivista «Ricerche Storiche Salesiane» (1992-2011). Cofondatore del Coordinamento Storici Religiosi e dell’Associazione Cultori di Storia Salesiana, don Motto è docente invitato presso la Pontificia Università Salesiana. Fra i suoi lavori più recenti ci sono gli studi sui Salesiani per il 150° dell’unità d’Italia e la monografia sull’opera salesiana a San Francisco fra gli emigrati italiani, nonché la produzione del docu-fiction A sud del sud (2014) di Salvatore Metastasio, ambientato nelle missioni salesiane della Patagonia meridionale-Terra del Fuoco dedicato e portato in dono a Papa Francesco.

Don Francesco, Lei è uno dei massimi studiosi dell’epistolario di Don Bosco, di cui sta curando l’edizione critica. Come mai una pubblicazione arriva a 200 anni dalla nascita del santo e non è stata fatta prima?
«A dire il vero molte lettere sono già state pubblicate all’interno dei 19 volumi delle Memorie Biografiche (1898-1939) e dell’edizione divulgativa delle lettere curata da don Eugenio Ceria mezzo secolo fa.
Negli anni Ottanta si è intrapresa l’edizione critica delle lettere già edite anteriormente e quelle altre venute alla luce successivamente (quasi 2.000). Ovviamente si è trattato prima di reperirle letteralmente in mezzo mondo (dal Madagascar, all’India, alla Patagonia…) e in decine di archivi civili ed ecclesiastici, poi di presentarle con tutti quegli accorgimenti scientifici – i noti apparati – che richiede un’edizione critica. Ecco perché dopo 30 anni mancano ancora 4 volumi dei 10 previsti».

Ci può dire quali aspetti di Don Bosco l’hanno colpita scavando nella miniera del suo epistolario?
«L’epistolario di don Bosco costituisce una autobiografia scritta a sua insaputa, giorno dopo giorno. Dunque vi si trova di tutto: decisioni, pensieri, ripensamenti, desideri, preoccupazioni,
delusioni, successi, situazioni, condizioni di salute, gioie e dolori, amici e nemici … Ne emerge la figura di un “grande” che sentendosi chiamato ad un’impresa decisamente superiore alle sue forze confida in Dio e vi si getta a capofitto, nella certezza che Dio sta dalla sua parte. Fede
in Dio, volontà indomita, intuizioni formidabili, coraggio di rischiare, fiducia nella Provvidenza, lavoro indefesso, capacità di sopportare frustrazioni e superare difficoltà in tempi difficilissimi, gli hanno permesso di ottenere quei risultati che tutti conosciamo. Il grande pubblico merita di conoscere questi aspetti della sua personalità, non solo i mille e meravigliosi aneddoti della fanciullezza. La sua figura di uomo di Dio ma tutto consacrato al bene dei giovani è di estrema attualità nella fase storica della società e della Chiesa in cui viviamo».

I salesiani sono relativamente giovani rispetto ad altre famiglie religiose plurisecolari.
Eppure il ramo maschile è secondo solo ai gesuiti come numero di religiosi, mentre uomini e donne insieme sono secondi solo al grande albero francescano contando tutti i suoi rami. Qual è stata la ragione profonda del successo della proposta religiosa di don Bosco in un periodo in cui la Chiesa era ricca di famiglie religiose ancora floride e dinamiche?

«Fermo restando che i numeri non sono tutto, direi che le due congregazioni fondate da don Bosco sono state capaci di dare adeguate risposte ai bisogni dei tempi, in epoche e situazioni diverse: con le loro opere intercettavano infatti le conseguenze della crescita demografica, della preindustrializzazione e industrializzazione dei vari paesi, dell’istruzione e della scolarizzazione di base, dell’assistenza a varie categorie di giovani, per lo più poveri, dell’apertura di nuove vie di comunicazione, dell’editoria e dei mezzi di comunicazione. Tutto ciò attirava le vocazioni, assieme ovviamente al fascino universale di don Bosco, alla sua spiritualità semplice e popolare, al riconoscimento della validità del modello educativo salesiano, all’entusiasmo per imprese missionarie».

I salesiani hanno avuto una fortissima espansione missionaria. Oggi si parla di “Chiesa in uscita”: i salesiani lo sono stati si può dire fin da subito. Da dove nasceva in Don Bosco questo impulso alla missionarietà, fino agli estremi confini della cattolicità?
«Don Bosco ha sognato in grande da sempre, fin dal tempo dei suoi studi sacerdotali, durante i quali leggeva riviste missionarie. Torino ma anche l’Italia gli stavano stretti, con troppe autorità religiose soffocanti le sue libere iniziative apostoliche. Il contatto poi con i vescovi venuti a Roma per il Concilio Vaticano I, gli aprì gli orizzonti oltre oceano. Appena ottenuta l’approvazione definitiva delle Costituzioni Salesiane nel 1874, l’anno successivo si lanciò oltre confine, in Francia e in Argentina. La scelta di questa a preferenza di altri paesi asiatici, africani, australiani, è dovuta alle migliori condizioni che presentava in fatto di lingua, cultura, trasporti. Il vangelo andava portato là dove non era ancora arrivato, alla fine del mondo, dove anche milioni di immigrati italiani erano lasciati soli dal proprio paese, se non ci fossero stati uomini e donne di Chiesa a dar loro una mano».

Oggi l’India è il Paese con più salesiani al mondo, con 2.500 religiosi, ha sopravanzato
anche l’Italia. Come mai un tale successo dei salesiani in questo Paese e nell’Asia in generale, secondo lei?

«Le spiegazioni sono molteplici; ne dico due: per l’Italia e il vecchio mondo direi che il secolarismo avanzato ha fatto emergere una grave crisi vocazionale dei salesiani, dovuta a tanti fattori ambientali: demografici, di scarsa creatività nell’inventare nuove forme di risposta all’emergenza educativa in corso, di minor entusiasmo per la vita spirituale a vantaggio di materialismo e consumismo. Per l’India e l’Asia (e fra pochi decenni per l’Africa) in genere: si tratta di popoli “in crescita” con minoranze cattoliche ma entusiaste della loro fede, che trovano nel carisma salesiano una forte motivazione per servire il Vangelo nel servizio dei giovani del loro paese, spesso né cattolici né cristiani. La globalizzazione porta anche a questo».

Ci sono aspetti nella storia delle missioni salesiane, degli inizi ma non solo – aspetti di eroismo, di santità, di dedizione – che in questo bicentenario di don Bosco andrebbero
riscoperti?

«La storia civile spesso considera la storia delle missioni ad gentes come una cosa riservata alla Chiesa, di cui la società, laica per definizione, non deve interessarsi.
Come se spesso i missionari non siano stati veri pionieri nello scoprire nuovi mondi, nel servire disinteressatamente nuovi popoli in tutti i loro bisogni anche materiali.
Chi sa che il salesiano mons. Fagnano è stato il primo a portare i mattoni alla fine del mondo, a Punta Arenas, nel Cile meridionale? Chi conosce la storia della rete di stazioni metereologiche che i salesiani hanno attivato in America Latina oltre un secolo fa? Chi conosce don Bernabè che ha costruito nella Patagonia meridionale decine di chiese accanto ad opere educative salesiane dove non esisteva nulla di nulla e oggi sono fiorenti città? Non è mancato chi, come don Milanesio, ha attraversati 50 volte le Ande a cavallo e ha percorso, sempre a cavallo, 80.000 km (due volte la circonferenza della terra) per portare a Dio poche migliaia di Indios. Ci si dovrebbe poi domandare che cosa spingeva una ragazza piemontese di 20 anni, mai uscita dal proprio paese, ad andare un secolo fa nella Terra del Fuoco (oggi diremmo sulla luna) in mezzo a piccole popolazioni di indios che Darwin definiva più simili agli animali che all’uomo. E si potrebbe continuare con altri eroici missionari, veri pazzi di Dio, pionieri sotto mille punti di vista in tanti altri paesi (Brasile, Ecuador, Venezuela. ccc.) Cito solo l’ultimo che è scomparso nel 2013, don Luigi Bolla, che ha speso oltre 40 anni tra le comunità Achuar dell’Ecuador e del Perù, impegnandosi non solo nell’evangelizzazione degli indigeni, ma anche nella conservazione del loro patrimonio antropologico e culturale. Una figura apprezzatissima
da molti antropologi e che certamente meriterebbe di essere conosciuta. Può essere un soggetto per una fiction televisiva di grande impatto storico-culturale, nel vuoto di idee di tanti palinsesti italiani». â–

 
Il Timone – Gennaio 2015

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