Instancabile viaggiatore, tra mille pericoli, spendeva ogni istante per evangelizzare. Perché «che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la sua anima?»
Ci sono incontri che noi uomini giudicheremmo improbabili e perfino dannosi, se il Cielo non li propiziasse, per riversare sulla Chiesa un fiume di grazie.
Che cosa avevano in comune Ignazio di Loyola e Francesco Saverio quando nel 1528 s’incontrarono casualmente all’Università di Parigi, costretti a condividere la stessa stanza? Ignazio aveva 37 anni ed era un ex- Francesco Saverio: guadagnare il mondo a Dio Instancabile viaggiatore, tra mille pericoli, spendeva ogni istante per evangelizzare. Perché «che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la sua anima?» soldato ferito durate l’assedio di Pamplona che – una volta convertito – s’era dato a guidare anime ed era ritornato sui banchi di scuola per certi suoi grandiosi progetti missionari (che sembravano perfino ridicoli).
Francesco Saverio aveva soltanto 22 anni ed era un orgoglioso navarrino che studiava teologia solo per assicurarsi una prestigiosa carriera ecclesiastica, accuratamente programmata.
Nei primi tempi Francesco non esitò a mostrarsi infastidito: spesso scherniva Ignazio e i suoi seguaci, mentre questi lo trattava con signorile cortesia e con vera carità cristiana. Ma col passare del tempo, a sconvolgere il cuore di Francesco, fu un’espressione evangelica che Ignazio ripeteva spesso ai suoi amici, ma come se la indirizzasse segretamente proprio a lui: «Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la sua anima?».
L’amicizia nacque così: quando la voce di Ignazio ferì il cuore di Francesco, ma come se a interrogarlo nell’intimo fosse Gesù stesso. Non riusciva più a dimenticarla: alla luce e al calore di quell’espressione tutti i suoi sogni umani gli apparivano meschini e gli anni avvenire gli sembravano invece troppo brevi per vivere, gustare e annunciare quella “verità” che gli stava cambiando la vita.
Quando, il 15 agosto 1534, Ignazio radunò attorno a sé alcuni “compagni” nella cappella di Santa Maria a Montmartre, per fare voto di povertà, castità e obbedienza, Francesco non volle mancare. Ignazio era diventato per lui Padre e Guida spirituale e Francesco era disposto ad assecondare, con la propria vita, quegli Esercizi spirituali che il Maestro gli proponeva sistematicamente.
La posta in gioco era totalizzante: mettersi a servizio di Gesù, Re e Signore, in totale disponibilità e obbedienza. Così quando tutti “i compagni” ebbero completato i loro studi, cominciarono a prepararsi alla missione che il Papa avrebbe voluto affidare loro, esercitandosi per alcuni anni in opere di carità particolarmente impegnative, disposti a raggiungere anche gli estremi confini della terra. Intanto si presentavano e vivevano come “poveri preti di Cristo”.
Il momento opportuno giunse in seguito a una richiesta del Re del Portogallo che chiedeva al Papa missionari per le Indie; Ignazio rispose d’avere a disposizione per quell’impresa un missionario soltanto: Francesco Saverio.
In missione in Asia…
Così, nel 1542, Francesco partì tutto solo per Goa, ultimo avamposto europeo in Asia, e il viaggio per mare durò tredici mesi. Aveva l’incarico «di prendere possesso di tutta la quarta parte del mondo per la Croce di Cristo». E non aveva altra difesa che il titolo di “Nunzio apostolico” (cioè di rappresentante del Papa). Come bagaglio aveva qualche indumento, un breviario, alcuni paramenti sacri e un paio di stivali, e la traduzione scritta di alcune preghiere e alcune formule di catechismo.
Svolse la sua prima missione nell’estremità meridionale della penisola indiana, tra pescatori di perle, povera gente sfruttata e depredata da governanti cristiani e da pirati musulmani. Poi si spinse fino alla Nuova Guinea.
Saverio non conosceva la lingua di quei Paesi; si serviva di qualche incerto interprete, ma tra lui e i poveri si stabiliva facilmente una sorta di comunicazione naturale e spirituale: «I poveri – diceva – mi fanno capire senza interpreti i loro bisogni e io, vedendoli, li capisco. Per le cose più importanti non ho bisogno d’interpreti». E i poveri percepivano la bontà e la santità di quel loro missionario: lo capivano soprattutto quando lo vedevano passare lunghe ore della notte in preghiera.
Nella sua programmazione missionaria, Francesco Saverio si era fatto un punto di onore di procedere sempre oltre, abbandonando terre e progetti, quando la comunità cristiana si era almeno un po’ consolidata. Così – nei dieci anni di apostolato che il Cielo gli riservava (sarebbe morto a soli 46 anni!) – fondò tre missioni, fermandosi circa due anni in ciascuna di esse. Il resto del tempo si può dire che lo trascorse viaggiando (un anno per terra e due anni per mare) percorrendo, con mezzi di fortuna, circa centomila chilometri.
Le privazioni subite e i pericoli affrontati furono innumerevoli. Quando gli accadeva di parlarne, confessava che non avrebbe accettato di subire quelle prove per niente al mondo, «nemmeno per un solo giorno ». Ci era riuscito soltanto «per il suo Signore Gesù».
…in ogni momento e luogo…
Ma proprio durante i suoi interminabili viaggi Francesco Saverio mostrava l’originalità del suo modo di concepire la missione: i tempi in cui doveva spostarsi da un territorio all’altro, non li considerava mai tempi provvisori o di attesa; per lui erano anch’essi tempi di missione, e terre di missione erano le navi, i battelli, le locande di fortuna, i villaggi e le capanne incontrate casualmente. Si considerava «missionario in azione», in ogni istante della sua vita, senza temere di annunciare il Vangelo a marinai ubriaconi e dissoluti, o a viandanti che gli si accostavano per qualche tempo o a malati che poteva casualmente soccorrere, o a briganti che l’avevano appena malmenato.
Erano tutti suoi fedeli. Se incontrava lebbrosari o prigioni o capanne o taverne, o se lo invitavano a pranzo in qualche famiglia, ne approfittava per evangelizzare, considerando tutti i luoghi come terra di missione a lui affidata e tutte le persone come suoi “fedeli”. Non badava a distinzioni sociali: ricchi e poveri, liberi e schiavi, cattolici portoghesi e musulmani… li sentiva tutti affidati alle sue cure.
Se fustigava qualcuno, erano quei cattolici portoghesi che rendevano più difficile la sua missione, perché erano venuti nelle Indie pronti a coniugare in mille maniere il verbo rubare. Era questo a farlo profondamente soffrire: veder danneggiata la sua opera proprio da coloro che più avrebbero dovuto sostenerla. E quand’era necessario sapeva organizzare perfino forme di resistenza al malaffare e al saccheggio.
Un’altra sua pena erano i lunghi tempi in cui era costretto all’inoperosità a causa dei venti, delle tempeste, dei guasti, dei mancati mezzi di trasporto, e di mille altre disavventure. Giornate intere erano praticamente affidate al caso e sembravano scorrere inutilmente. Allora Francesco si diceva umilmente: «Inutile angustiarsi, il Signore vuole questa giornata tutta per sé», e la passava in preghiera. Unico suo conforto erano le lettere che ogni tanto riceveva da Ignazio o dai confratelli: quelle del Padre le leggeva in ginocchio e, da quelle dei confratelli, ritagliava le firme per conservarle (assieme alla formula della sua professione) in un sacchetto che portava sul cuore.
Anche lui scriveva, appena riusciva a trovare un po’ di tempo e la possibilità di affidare la posta a qualche corriere. E quando i suoi scritti arrivavano in Europa suscitavano forte entusiamo e nuove vocazioni missionarie.
…in Giappone puntando alla Cina
Infine Francesco decise di raggiungere il lontano Giappone, percorrendo più di mille e trecento leghe. Sapeva che c’erano ad attenderlo pericoli mortali.
Annunciando quel progetto ai suoi confratelli, scrisse: «È già una buona cosa quando su quattro navi due si salvano. Per quanto mi riguarda, andrò certamente in Giappone, anche se fossi sicuro di incontrare pericoli ancora maggiori che nel passato; talmente grande è la speranza in Dio nostro Signore che la fede si diffonderà in queste terre».
Vi rimase due anni, ma con risultati assai scarsi. Comprese allora che era impossibile convertire quelle terre senza partire dalla Cina che i giapponesi consideravano patria di ogni saggezza e di ogni verità. Così Francesco si dispose anche a quell’ultima avventura, ma riuscì soltanto a raggiunger la piccola isola di San-cian, dove aspettava un mercante cinese che gli aveva promesso di traghettarlo in Cina.
Per giorni e giorni se ne stette febbricitante nella sua capanna in riva al mare, aspettando, pregando e stringendo tra le mani un crocifisso.
Morì così, il 3 dicembre 1552, abbandonato su quella sponda deserta, ma col cuore proteso a quella nuova missione che ardentemente desiderava.
È bello qui ricordare che intanto, nella lontana Italia, a Macerata, da soli due mesi era nato proprio il bambino che avrebbe ereditato il suo sogno, la sua vocazione e la sua missione in Cina, dotato della migliore preparazione intellettuale, spirituale e anche organizzativa che i Gesuiti sapevano garantire: il Servo di Dio Matteo Ricci.
Ricorda
«Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo».
(Geremia 20, 7-9)
Per saperne di più…
Antonio Maria Sicari, Settimo Libro dei Ritratti di Santi, Jaca Book, 2002.
IL TIMONE N. 130 – ANNO XVI – Febbraio 2014 – pag. 50 – 51
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