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13.12.2024

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Gandhi, il soldato che non voleva uccidere
31 Gennaio 2014

Gandhi, il soldato che non voleva uccidere

 

 

Leale verso l’esercito britannico, ammiratore della vita militare, viveva la castità come condizione per la “non-violenza”: ecco chi era davvero il Mahatma. Niente a che vedere con il pacifismo e obiezione di coscienza.

 

 

 

La mia lealtà alla dominazione britannica mi spinse ad affiancarmi agli inglesi in quel conflitto. Se esigevo i diritti spettanti a un cittadino britannico era anche mio dovere, in quanto tale, partecipare alla difesa dell'impero». L'autore di queste parole è Mohandas Karamchal Gandhi, e la guerra a cui partecipò è quella contro i boeri in Sudafrica, fra il 1897 e il '99. Il giovane Gandhi fu soldato. Anzi: benché «le mie simpatie personali andassero ai boeri», si arruolò da volontario e convinse quanti più indiani poteva ad arruolarsi come corpo di ambulanza. Peggio: si adoperò a convincere gli inglesi, perché «l'inglese medio riteneva che l'indiano fosse codardo e incapace di rischiare». Il problema gli si pose di nuovo nel 1914, all'inizio della Grande Guerra. Rifiutare l'uniforme non sarebbe stato disertare? Scrisse: «Quand'ero in Inghilterra godevo della protezione della flotta inglese e, riparandomi dietro la sua forza armata, partecipavo alla sua violenza spirituale… perciò non mi restava che prestare servizio». Vero è che il pensiero di Gandhi cambierà quando, nel 1920, abbandonerà in piena consapevolezza il lealismo verso l'impero britannico, per sposare la causa dell'India sovrana. Intanto, aveva approfondito e maturato la sua concezione di ahimsa, la "non-violenza".
Ma certo Gandhi non fu mai propriamente un "pacifista" e nemmeno un obiettore di coscienza, nel senso invalso fra coloro che dicono di imitarlo. Pochi capiscono quanto la sua non-violenza fosse, profondamente, militare. Spiegò più volte che lui accettava tutto del soldato – obbedienza, sacrificio, disciplina, disposizione alla morte – tranne una cosa, la disponibilità ad uccidere. Ma aggiungendo: «Tra la viltà e la violenza, sceglierei la violenza. lo coltivo il calmo coraggio di morire piuttosto che uccidere. Ma desidero che coloro che non hanno questo coraggio coltivino l'arte di uccidere ed essere uccisi, piuttosto che sfuggire il pericolo da codardi. Perché chi fugge non ha il coraggio di subire la morte».
Non erano parole. Giovane avvocato in Sudafrica, un giorno fu gettato giù da una diligenza perché c'era posto solo per i bianchi. Poiché aveva pagato il biglietto, Gandhi salì di nuovo: fu picchiato e cacciato di nuovo. Risalì. Fu di nuovo pestato a sangue. Cinque o sei volte. Alla fine i grossi e maneschi bianchi cedettero: in quell'omino un po' ridicolo (allora Gandhi vestiva in giacca a code e cravatta, doveva somigliare a Charlot) c'era più coraggio che in tutti loro.
Tradì sempre una certa simpatia per i militari. Nel 1908, incarcerato per la prima volta per una delle sue azioni di disobbedienza civile, organizzò una protesta perché ai detenuti fosse dato del curry e del sale per il cibo. L'ufficiale medico inglese gli rispose: «Non siete qui per soddisfare la gola. Dal punto di vista igienico il curry non è necessario». La risposta gli piacque e la fece propria: da allora mangiò senza condimenti e prese l'ultimo pasto prima del tramonto, perché aveva notato che «il regolamento imposto ai carcerati era quello che s'impone volontariamente il brahmachari, cioè chi pratica l'autocontrollo)). Propriamente, brahmacharia è la pratica della castità. A quel suo imitatore italiano digiunatore "politico" come Gandhi e promotore di "azioni non violente" (fate voi il nome), converrà ricordare che per Gandhi, senza la castità, la pratica della non-violenza non è possibile.
Più volte incarcerato (docilmente, poiché violava leggi inglesi che riteneva ingiuste, riteneva giusto scontarne la pena) fabbricava dei sandali, che poi – uscendo – regalava ai suoi carcerieri. Anche Jan Smut, il futuro premier del Sudafrica razzista, ricevette il suo paio di sandali. La non-violenza, infatti, deve «non umiliare ma elevare» l'avversario. E difatti Gandhi fu capace di mantenere gli inglesi al livello della loro civiltà, degni avversari (non nemici) nella leale battaglia per l'indipendenza indiana. Fra 300 milioni di indiani c'erano 15 mila soldati britannici: una parola di Gandhi, e sarebbe stata la strage. AI contrario, al minimo segno di disordini poneva termine alle manifestazioni di folla (enormi) che aveva indetto. Conosciamo tutti (fate voi i nomi) un "gandiano" nostrano molto logorroico. Gandhi parlava pochissimo e non usò mai artifici oratori per infiammare le folle. Spesso i suoi "comizi" erano muti: lui guardava la folla e gli indiani lo guardavano. Era il darshan, "lo sguardo".
Nel 1947, l'indipendenza indiana fu macchiata dalla grande Partizione: i musulmani si separarono dagli indù per creare il loro Pakistan. Fu un tragico esodo di popolazioni, in migliaia di villaggi dove gli indù erano maggioranza ci furono pogrom di islamici, e viceversa nei villaggi dove erano più forti i musulmani.
Gandhi camminò di villaggio in villaggio, abitò in case di musulmani minacciati, predicò, sgridò. Alla fine proclamò che avrebbe digiunato fino alla morte. Non bastò. Con un filo di voce disse ai suoi (che erano diventati capi del nuovo governo): «Chiamate lo kshatrya». Lo kshatrya (il guerriero) era Lord Mountbatten, vicerè dell'India, che stava facendo le valigie: su richiesta di Gandhi, comandò la truppa e le armi inglesi per riportare l'ordine. Ma i due Stati, India e Pakistan, nascevano in stato di guerra virtuale. Dal suo lettino di digiunatore, con un biglietto a Nehru, suo seguace e capo del governo indiano, Gandhi fece sapere la sua volontà: voleva che il neo-governo consegnasse al Pakistan la metà dei fondi di Stato che aveva in cassa. Com'era giusto. Sgomento, consultazioni ad alto livello: infine Nehru e i suoi ministri decisero di mandare Patel – il suo allievo prediletto – dal Mahatma, per convincerlo. Patel si accoccolò presso la branda e spiegò: dare il denaro al Pakistan sarebbe come pagargli i mezzi per farci la guerra. Parlò a lungo. Gandhi taceva. Infine si voltò contro il muro, piccolo mucchietto d'ossa, e disse solo: «Ah Patel, Patel». La sera, il partito del Congresso consegnò al Pakistan il denaro. Gandhi non aveva alcuna carica, ma il suo potere era invincibile. Aveva scritto: «Il mio patriottismo è una tappa del viaggio verso la felicità e la pace eterna».
Patriota, buon soldato Gandhi.

RICORDA

«Se la fede in Cristo trova accesso ai cuori e alle menti, tuttavia l'immagine della vita nelle società occidentali (le cosiddette società -cristiane»), che è piuttosto un'antitestimonianza, costituisce un notevole ostacolo all'accettazione del vangelo. Ne ha fatto più volte cenno il Mahatma Gandhi, indiano e indù, a suo modo profondamente evangelico, e tuttavia deluso da come il cristianesimo si esprimeva nella vita politica e sociale delle nazioni».
(Giovanni Paolo Il, Varcare la soglia della speranza, intervista di Vittorio Messori, Mondadori 1994, p. 81).

BIBLIOGRAFIA

Mohandas K. Gandhi, Gandhi parla di se stesso. Un umile ricercatore della verità, EMI 1998.
Gloria Germani, Teresa di Calcutta, una mistica tra Oriente e Occidente. Il suo pensiero in rapporto all’India e a Gandhi, Paoline 2003.

IL TIMONE – N. 39 – ANNO VII – Gennaio 2005 pag. 50 – 51

 

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