Nel 1972, sposata da neanche tre anni e madre di due bambini, militanti comunisti di Lotta Continua le uccidono il marito, il commissario Calabresi. Una tragedia. Che ha saputo superare grazie alla forza della fede
Gemma Capra è una donna minuta e forte. Negli occhi grigio- azzurri porta la memoria di una ferita senza fine intrecciata a una vita che il dolore non è riuscito a fermare. La cronaca la ricorda perché il 17 maggio 1972 suo marito, Luigi Calabresi, venne assassinato.
Erano tempi difficili, in cui le lenti deformanti dell’ideologia inducevano molti a credere che lo Stato e i garanti dell’ordine pubblico fossero i responsabili di ogni male sociale. Così, in un clima infuocato dall’odio politico, il movimento extraparlamentare di Lotta Continua scatena una violenta campagna diffamatoria contro Calabresi, giovane commissario di polizia. Senza alcun fondamento lo si accusa della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, avvenuta il 15 dicembre 1969 durante un interrogatorio per le indagini sull’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, a Milano.
A fare da coro si schiera gran parte degli intellettuali progressisti. Il commissario diviene presto oggetto di linciaggio mediatico: ideologi e giornalisti presentano la sua eliminazione come un atto di giustizia proletaria. Nell’attacco a Calabresi si distingue il teorico di Lotta Continua Adriano Sofri che, insieme a Giorgio Pietrostefani, verrà poi indicato dal pentito Leonardo Marino come colui che ha dato l’ordine di uccidere il commissario; esecutore materiale del delitto sarà Ovidio Bompressi, fiancheggiato dallo stesso Marino.
Quando i colpi dei terroristi lasciano senza vita suo marito, Gemma Capra è sposata da meno di tre anni, ha due figli piccoli e ne attende un terzo. I suoi giorni di giovane sposa e di madre sono visitati da un dolore difficile da raccontare.
Sin dal primo istante, però, Gemma sceglie la vita: «Appena il mio parroco mi ha detto, solo col movimento delle labbra, che Gigi era morto, subito ho pensato: preferisco essere la moglie della persona uccisa che la moglie dell’assassino. E su questo ho cercato sempre di far ragionare i miei figli, una volta diventati grandi: preferireste avere un padre assassino? In quel momento ho sentito fortissimo il dono della fede, la presenza di Dio accanto a me. E ho sentito che dovevo fare una scelta di testimonianza. È stato un dono che ho ricevuto allora e ho compreso sempre di più nel mio cammino: non ero sola e desideravo comunque vivere. Ero di una famiglia cattolica, praticante, attenta ai bisogni degli altri, ma prima non avevo una fede di questo tipo. Ovviamente il percorso di affinamento della fede è stato lunghissimo e l’ho conquistato negli ultimi anni. Il desiderio di testimoniare mi ha aiutato tantissimo nella vita: ho voluto crescere i miei figli nella gioia di vivere, non nella cultura della vendetta e della violenza; ho voluto che non si piangessero addosso, ma che riuscissero a gioire della vita».
Com’è possibile insegnare a vivere – e a vivere senza odio – davanti a un’ingiustizia del genere? Gemma Capra ripercorre la storia dei propri giorni, la sfida di scoprire la verità sull’uccisione del marito, di cercare la giustizia e, insieme, di strappare i figli Mario, Paolo e Luigi alla disperazione di un male che pesa su ogni istante: «Ho sempre detto ai miei figli che se qualcuno ti ha fatto del male, non necessariamente devi scegliere anche tu di abbracciare il male: scegliere il bene è una risorsa enorme, perché il male non fa più vivere. L’odio divora tutto, distrugge l’amicizia, non permette di alzarsi al mattino, di guardar fuori, di vedere che c’è il sole. Se sei sempre concentrato su quello che ti è capitato e pensi di essere l’unico infelice, non riesci più a sorridere, a vedere i tuoi figli che crescono e scoprono il mondo: è come se ogni giorno abbracciassi la cultura della morte e facessi vincere gli assassini. Certo, non è stato facile, ma lo hanno capito: le mie parole, l’esempio quotidiano, il mostrare loro che la felicità è possibile. La gioia di vivere viene trasmessa ai figli dai genitori: mio marito non c’era più e io, che avevo avuto un’infanzia gioiosa, non potevo toglierla ai miei figli. All’inizio il dolore è stato tale che avevo la sensazione di essere in qualche modo morta insieme a lui, però se fossi stata una mamma triste i miei figli avrebbero perso entrambi i genitori».
Dopo le rivelazioni di Marino, nel luglio 1988, si è aperta un’infinita vicenda giudiziaria, che ha confermato la colpevolezza di tutti gli imputati. Nella memoria della signora Calabresi rivivono dieci dolorosissimi anni di processi, un impegno senza sosta per cercare la giustizia, almeno quella che gli uomini e le aule giudiziarie possono offrire.
Oggi, però, più di ogni pur necessaria chiarificazione storica, l’essenziale per questa donna è dare voce al proprio cammino di perdono. Non una soluzione all’irragionevolezza del male che ne cancelli prima possibile i segni, non un perdonismo a buon mercato, ma la forza drammatica di una fede vissuta nella quotidianità e passata al vaglio della sofferenza: «In questi casi subito ti si chiede se hai perdonato, ma sono momenti in cui non sai più niente di te e qualsiasi risposta è frutto di un’emozione. Il perdono non lo si dà con la bocca né con la testa: lo si dà con il cuore. Ed è difficile, difficile. Io sento di aver perdonato Marino, perché lui lo ha chiesto e perché ha sofferto molto, sia per il rimorso sia perché quando ha confessato è stato deriso e umiliato. La sofferenza ci ha accomunato e mi ha aiutato nel perdono. Diverso è il caso di chi non chiede il perdono né lo vuole: a quel punto resta il cammino personale di non odiare e, magari, di arrivare a pregare per chi ti ha fatto del male. Quando Gigi è morto, mia madre ha scelto per il necrologio le parole di Gesù sulla croce prima di morire: Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. Mia madre ha sentito che quella frase non veniva da lei e io la ho accettata, ma non era mia: non l’avrei mai messa in quel momento tragico. Però era come spezzare quella catena di odio in un clima di continua violenza. Negli anni mi sono chiesta perché Gesù, che era figlio di Dio, con tutto quello che aveva predicato, non si è rivolto verso i suoi carnefici dicendo: “Vi perdono perché non capite quello che fate”. Credo sia perché Lui era anche uomo, quindi sapeva quanto si soffrisse davanti a tanto male, a tanta violenza. E sapeva quanto fosse difficile per noi uomini perdonare. Io lo spiego così: Lui ci ha dato l’esempio di chiedere al Padre di perdonare al posto nostro, lasciando a noi il tempo del cammino».
Più che sul male subìto, lo sguardo di Gemma Capra si ferma sulla strada di bene percorsa. Quasi riflettendo ad alta voce considera: «All’inizio il momento peggiore, ancora più della notte, che è sempre molto triste e in cui magari dovevo alzarmi per i bambini, era il risveglio al mattino, il vedere che le cose non erano cambiate ma bisognava accettarle così com’erano. Quando ci penso, mi domando come ho potuto farcela e capisco che non ero sola. Nel tempo, infatti, ho scoperto che molte persone che non conoscevo mi hanno voluto bene e hanno pregato per me: credo che questa sia stata la mia forza. Ho sentito fortissima e reale la comunione con altre persone, che mi hanno aiutata, che fanno parte del mio cammino».
La voce è pacata, gli occhi che sono stati costretti a vedere tanto male ogni tanto si fanno lucidi, ma ancora una volta il cuore del racconto è il bene ricevuto. Così, quasi a sorpresa, le parole di Gemma fanno rivivere il paradosso della croce nella semplice evidenza della realtà: «Io non posso dire di avere avuto una brutta vita, assolutamente: è stata intensa, ricca di sentimenti, di incontri, di emozioni, di amicizie bellissime; ho dei figli meravigliosi, che hanno saputo cogliere da me la voglia di vivere. Ho comunque avuto molto dalla vita: soprattutto la fede, che è un dono, che fa essere positivi e dà la forza per lottare. La tragedia che ho vissuto mi ha senz’altro affinato e mi ha fatto scoprire dei valori e una fede che forse non avrei avuto in un normale percorso di vita. Ecco: sembra assurdo, ma è stato così».
IL TIMONE N. 97 – ANNO XII – Novembre 2010 – pag. 52 – 52