La sofferenza delle coppie sterili è una realtà che merita rispetto e aiuto. Ma non basta a legittimare il ricorso alla provetta. Perché il figlio non sia il prodotto di una pretesa, ma il dono di una Volontà più grande.
Al principio di tutto c’è un grande vuoto. Il vuoto provocato da un figlio tanto desiderato che non arriva, e che suscita una sofferenza profonda nel cuore degli sposi, e soprattutto della donna. È la storia comune a non poche coppie, che scoprono poco alla volta di non riuscire a coronare il loro amore con il frutto più bello e più straordinario: la gioia di un figlio.
Con questo dossier, il Timone vuole chinarsi con uno sguardo di comprensione e di amore verso una realtà sommersa, fatta di un dolore muto che molti si portano dentro, senza trovare una risposta veramente consolante. Il rischio, per questi uomini e queste donne, è quello di cadere vittime della disperazione, e dunque di una ribellione cieca contro un destino che appare inspiegabile.
Se nessuno aiuterà queste coppie a trovare una soluzione autenticamente umana, allora è molto probabile che esse saranno preda facile delle sirene della modernità. A cominciare dall’imponente ingranaggio delle tecniche di fecondazione artificiale, che promettono figli seminando in realtà morte e desolazione.
Le risposte sbagliate a una domanda legittima
“Perché proprio noi – noi che vogliamo tanto un figlio – non riusciamo ad averne uno?” Di fronte a questa lacerazione, è sempre più frequente la tendenza a inseguire soluzioni sbagliate, a battere strade disperanti che alla fine aggiungono dolore a dolore, insoddisfazione a insoddisfazione. Perché c’è in giro una falsa carità, che oggi circola come moneta falsa, con la quale le coppie sterili vengono ingannate in nome della comprensione e del rispetto per il loro dolore. Sappiamo infatti con certezza che esistono alcune risposte sbagliate alla sterilità, che devono essere con franchezza indicate agli sposi, affinché imparino a diffidarne. Vediamole.
a) Siccome soffro tanto, ho diritto ad avere un figlio. E chi dice il contrario è ingiusto. La sofferenza per il figlio che non arriva è una realtà che merita rispetto, ma in alcun modo questa sofferenza genera un diritto a pretendere il figlio a ogni costo, a strapparlo con un atto che violenta la natura, attraverso le tecniche artificiali. È un errore piuttosto comune, ma assai grave, quello di desumere il criterio di giudizio da situazioni fortemente emotive. È la stessa mentalità in base alla quale, se una madre con una gravidanza imprevista soffre, allora ha diritto ad abortire. E ancora: siccome un paziente molto malato soffre tanto, ha diritto all’eutanasia. Ragionando in questo modo, l’uomo nega di fatto qualsiasi norma morale, lasciando che sia la situazione a dettare di volta in volta i criteri di giudizio.
b) Se non riusciamo ad avere un figlio, il nostro matrimonio è un fallimento. Anche questa idea nasce da un errore di fondo, che fa coincidere il senso del matrimonio con la nascita del figlio. In realtà, due sposi che non riescono ad avere figli, pur avendo correttamente compiuto gli atti ordinati al concepimento, non sono “meno sposi” e meno famiglia delle altre coppie con prole. Per la Chiesa sono pienamente, a tutti gli effetti, una coppia di sposi, per nulla diminuiti davanti a Dio e all’uomo dalla mancanza di un figlio biologico.
Tanto più che nessuna coppia è colpevole della propria infertilità, ma piuttosto subisce una condizione particolare della quale non è responsabile. Per quanto questa condizione comporti, soprattutto all’inizio, una fatica, essa non può essere l’alibi per un fallimento matrimoniale, né per la diminuzione di quel vincolo santo, quel “grande sacramento” che lega l’uomo alla donna nel matrimonio.
Del resto, l’esperienza insegna che il figlio di per sé non migliora né peggiora il rapporto fra i coniugi, e che è una illusione superficiale e pericolosa quella coltivata da quanti credono che “se avessimo un figlio, tutto sarebbe diverso tra di noi”.
c) Se non riusciamo ad avere un figlio, allora risolveremo il nostro problema adottandone uno. In questa idea c’è un fatto buono: l’adozione, a differenza della fecondazione artificiale e della inseminazione in vivo, non è un male in sé, e anzi è una testimonianza di accoglienza e di apertura alla vita. Tuttavia, occorre stare molto attenti: se l’adozione è “usata” come rimedio ai problemi della coppia, essa viene banalizzata o addirittura travisata nel suo vero significato. Si adotta un figlio perché gli sposi vogliono donarsi come genitori a un bambino che non hanno generato direttamente. Si adotta per dare una famiglia a un figlio, e non per dare un figlio a una famiglia. Sembra un gioco di parole, ma esiste una profonda differenza.
Qual è il desiderio buono di paternità e di maternità?
Dunque, abbiamo visto come il fatto di desiderare un figlio sia in sé stesso un bene. E abbiamo cercato di spiegare come il male stia più che altro in certe risposte sbagliate a una domanda buona. Tuttavia, non possiamo tacere come talvolta il male sia insito nel cuore stesso del desiderio di paternità e di maternità. In che senso? Nel senso che, con molta onestà, dobbiamo guardare nel nostro cuore per verificare se il nostro desiderio di diventare genitori è purificato – per quanto possibile – dalle tentazioni dell’egoismo e della strumentalizzazione.
a. Da un lato, infatti, c’è un desiderio del figlio che è oggettivamente cattivo. Ed è il desiderio che in realtà nasconde una pretesa: siccome voglio un figlio, devo averlo. Proviamo a intenderci con un esempio: se entro in un ristorante, desidero mangiare. E questo desiderio si accompagna a una pretesa legittima. Non solo spero di mangiare, ma pretendo che mi servano del cibo. Di più: pretendo di leggere la carta, e di scegliere la pietanza che più preferisco, e che se mi servono un piatto diverso, sono padrone di farmelo cambiare. Ecco: tutto questo è più che legittimo quando il desiderio riguarda le cose. Ma guai se penso di applicare lo stesso metodo alla persona umana, e in particolare al figlio. Nessuno può pretendere di “ordinare” un figlio, né di averlo secondo delle caratteristiche attese: bello, maschio, femmina, sano, biondo, al momento giusto. Il “figlio come pretesa che dipende dalla mia volontà” è un’aberrazione. E genera allo stesso tempo la mentalità abortista – “se il figlio arriva quando io non lo voglio, lo butto via” – e la mentalità del figlio in provetta, per cui “adesso voglio un figlio, e se non arriva lo compro in laboratorio”.
b. Dall’altro lato, c’è il desiderio buono del figlio, inteso come dono accolto che dipende da una volontà più grande della mia.
Quando un uomo e una donna si amano, e compiono ciò che è necessario al concepimento di una nuova vita, tuttavia non sanno mai se ciò è stato anche sufficiente a originare un figlio. Tra il loro atto d’amore e il concepimento c’è un piccolo grande mistero, che è riempito – a prescindere dalla volontà umana – dalla Volontà di Dio. Essi sono infatti pro-creatori, ma non i creatori della vita. Questo salto misterioso, questo limite invalicabile spiega perché noi non siamo mai, nemmeno quando abusiamo della natura armeggiando con provette e congelatori, i veri padroni della vita.
c. In questo senso, occorre anche ridimensionare l’importanza del desiderio, che nella nostra società è spesso una specie di “assoluto morale” che spazza via ogni riferimento etico: una cosa è giusta se la persona “la vuole”. Tizio vuole, quindi può. Eva vuole la mela, quindi se la prende e fa bene a fare così. Questa idea consuma un vero e proprio disastro antropologico. Pensateci un attimo: nessuno di noi può affermare con assoluta certezza di essere stato “desiderato” dai propri genitori. Eppure, sappiamo una cosa: che essi ci hanno amati. Non tanto perché ci volevano, e volevano un figlio proprio come siamo fatti (magari siamo stati molto diversi dalle loro aspettative, nel bene e nel male); ma perché mamma e papà ci hanno accolti. Hanno vissuto l’esperienza autentica della paternità e maternità come ricevimento di un dono, e non come acquisto di un bene di consumo preteso e inseguito a ogni costo.
Una nuova paternità e maternità
Precisate queste verità oggettive, ciò non significa che le coppie che si lasciano sedurre dalla provetta agiscano consapevolmente per egoismo, orgoglio, arroganza. La loro condizione psicologica potrà anzi apparire completamente diversa, e a prima vista essi ci sembreranno generosi, pronti al sacrificio, aperti alla vita. Ma, al di là delle intenzioni soggettive, la fecondazione artificiale rimane sempre, omologa o eterologa che sia, un male morale gravissimo. Perché falsifica l’amore coniugale e presuppone l’uccisione sistematica di molti fratelli per far nascere un figlio. È in quest’ottica che tutta la Chiesa sta maturando sempre più la necessità di una nuova, più intensa cura del confessionale, della direzione spirituale, rivolta a uomini e donne che desiderano un figlio che non arriva.
Due sono i canali che di solito precedono l’accesso alle tecniche artificiali: il medico (soprattutto il ginecologo) e il sacerdote. Dalla parola di questi due uomini spesso dipende la scelta della coppia. I sacerdoti sappiano consigliare, e consigliare bene: c’è un chiaro insegnamento della Chiesa che nessuno può sentirsi autorizzato a tradire, nemmeno di fronte alla pietà e alla compassione che una sofferenza può suscitare. C’è un grande lavoro da compiere non solo con gli sposi “sterili”, ma a partire dalle coppie di fidanzati.
Prepariamole all’idea che la promessa matrimoniale contiene in sé l’accettazione di tutti i figli che la Provvidenza vorrà mandare, ma allo stesso tempo di tutti i figli che non arriveranno. C’è infatti una paternità che è per tutti: i sacerdoti, le suore, le persone che non si sposano, le persone che si sposano ma non riescono a generare un figlio. Perché l’amore di Cristo vince tutto, e anche la misteriosa infecondità della carne può generare una più grande e perfetta paternità e maternità del cuore. Lo so, facciamo fatica a capirlo.
Ma non spaventiamoci: è lo stesso stupore che prova Nicodemo davanti a Gesù che gli rivela la necessità di una seconda nascita: “Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?” Il nocciolo sta tutto qui: dobbiamo rinascere, e far nascere Gesù in noi. Questa è la paternità che conta sopra ogni altra.
Bibliografia
Martin Rhonheimer, Etica della procreazione, Mursia – Pontificia Università Lateranense, 2000.
Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum vitae, 1987.
Giorgio Maria Carbone, La fecondazione extracorporea, EDS, 2005.
Studi cattolici, numero 530, aprile 2005, interamente dedicato alla fecondazione artificiale.
Dossier: Quando il figlio non arriva
IL TIMONE – N. 44 – ANNO VII – Giugno 2005 – pag. 36-38