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12.12.2024

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Gesù: nessun sgarbo a Maria
31 Gennaio 2014

Gesù: nessun sgarbo a Maria

La risposta di Gesù a Maria che gli chiedeva di intervenire a causa della mancanza del vino, nelle nozze di Cana, appare sgarbata. Ma va rivista. Ecco la proposta di una traduzione più fedele all’originale

Le parole di Gesù a sua Madre durante le nozze di Cana, in Gv 2,4, sono una risposta alla richiesta della Madonna di intervenire poiché i convitati non avevano più vino. Solitamente queste parole sono tradotte: «Che ho a che fare con te, o donna? », o (nella nuova versione CEI 2008): «Che vuoi da me?» (la traduzione è analoga anche in molte lingue straniere). È vero che Gesù aggiunge la motivazione «non è ancora giunta la mia ora» (non è ancora il momento di iniziare con i miracoli), ma l’allocuzione iniziale a Maria, in entrambe le traduzioni, suona irrimediabilmente aggressiva e irrispettosa. Per questo, gli esegeti hanno cercato da molto tempo di offrire svariate interpretazioni per dare ragione di questa strana (e perfino offensiva) villania pubblica di Gesù. Ma il problema risiede piuttosto nella traduzione dal greco, che è sbagliata.
Nel saggio citato in bibliografia, ho cercato di dimostrare che la domanda greca «tì emoì kaì soì, gynai?» va piuttosto tradotta: «Che importa a me e a te, o Donna? ». Gesù si riferisce alla frase di Maria immediatamente precedente, che gli comunicava che i convitati avevano finito il vino. Maria voleva sollecitare Gesù a fare qualcosa, ma Gesù risponde che porre rimedio alla situazione non spetterebbe né a lui (che non ha ancora incominciato a compiere miracoli) né a lei. Dunque, «che importa a me e a te» se non hanno più vino? Non ci riguarda; noi siamo ospiti, non dobbiamo organizzare noi il banchetto.
Ho adotto prove di varia natura a sostegno di questa traduzione, che qui posso solo riassumere molto brevemente. Sono prove tratte dal contesto del passo, dalla logica, dalla lingua greca, da un confronto con l’ebraico e l’aramaico, dalle traduzioni antiche del Vangelo e dalle interpretazioni dei Padri della Chiesa.
Che Gesù abbia offeso la Madonna, per di più pubblicamente, a una festa in cui erano presenti amici e parenti, sembra molto strano, e tanto più nel Vangelo di Giovanni, quello cioè basato sulla testimonianza oculare dell’apostolo al quale Gesù morendo aveva affidato sua Madre. Maria visse poi con lui ed è probabile che sia stata proprio lei la fonte dell’evangelista sulle nozze di Cana. Là infatti non c’erano ancora i discepoli, ma solo Gesù, Maria e altri parenti.

Il vero dialogo tra Gesù e Maria

La traduzione «Che importa a me e a te?» si adatta anche perfettamente alla sequenza di battute nel dialogo tra Maria e Gesù:  
M.: «Non hanno più vino».   
G.: «Che importa questo a me e a te? Non è ancora venuta la mia ora (di operare miracoli)».  
La traduzione più diffusa invece non ha senso:
M.: «Non hanno più vino».
G.: «Che ho a che fare con te?…»
Senza contare che un figlio non può certo dire di non avere a che fare con sua madre.

Conferme dalle antiche versioni e dai Padri

Le antiche versioni bibliche, inoltre, e specialmente quelle copte, confermano la traduzione che ho proposto, poiché traducono nello stesso senso: «Che cosa ha a che vedere questo con me, e anche con te?». Questa traduzione è anche confermata da un’analisi completa di tutti i passi della letteratura greca (dalle origini ai primi secoli cristiani) in cui compare la stessa struttura sintattica che c’è nel passo giovanneo in questione: tì («che cosa») + pronome personale dativo («a me / a te / a noi», etc.) + kaì («e») + dativo («a me / a te / a noi / a Tizio», etc.).
In almeno due versetti della traduzione greca dell’Antico Testamento detta dei Settanta (2Re 16,10 e 19,23), la suddetta struttura significa: «Che cosa importa a me e a te?», come nel versetto giovanneo. Inoltre, si riferisce all’osservazione immediatamente precedente dell’interlocutore, di nuovo come nel nostro passo evangelico. In effetti, l’espressione interrogativa con tì + dativo significa «che cosa importa (a te / a noi)?» già in Platone (V-IV sec. a.C.) e nel neoplatonico Porfirio (III sec. d.C.).
Se si controllano poi attentamente tutte le interpretazioni dei Padri della Chiesa – e specialmente dei Padri greci, che leggevano il Nuovo Testamento in greco e non in traduzione latina, e scrivevano in greco essi stessi –, si trovano conferme alla traduzione che ho proposto. In un’opera dello Pseudo-Giustino (forse attribuibile a Teodoreto), le Quaestiones et Responsiones ad Orthodoxos (Problemi e soluzioni, agli ortodossi), il passo in questione è inteso nello stesso modo in cui ho proposto di tradurlo. La questione è: «Durante la festa di nozze, Gesù, dicendo a sua Madre tì emoì kaì soì, l’ha biasimata?». Evidentemente anche all’epoca c’era chi interpretava le parole di Gesù secondo la traduzione corrente («Che ho a che fare con te?»). Ma si era consapevoli della difficoltà di tale traduzione. Ecco la soluzione dello Pseudo- Giustino: «Le parole tì emoì kaì soì non furono pronunciate dal Salvatore per biasimare sua Madre, ma per esprimere questo: Non siamo noi che dovremmo curarci del vino consumato durante la festa nuziale. Tuttavia, per il mio profondo amore, se vuoi, affinché non manchi loro il vino, di’ ai servi di fare ciò che dirò loro, e vedrai che non rimarranno senza vino». Chiaramente, per l’autore delle Quaestiones et responsiones, l’interrogativa greca tì emoì kaì soì vuol dire: «Che importa questo a me e a te? Non ci riguarda».
Anche un’opera greca che rientra nel cosiddetto “Efrem greco”, ossia il corpus di opere greche che traducono o completano quelle siriache di Sant’Efrem (Sermones Paraenetici ad monachos Aegypti, cioè Omelie di esortazione ai monaci d’Egitto), attesta due costruzioni simili, una con tì («che cosa») + dativo («a me / a te» etc.) + kaì («e») + dativo («a me / a te» etc.) e l’altra con tì («che cosa») + dativo («a me / a te», etc.) + nominativo, entrambe aventi lo stesso significato della frase interrogativa giovannea.
Solo in Gv 2,3 non c’è il nominativo per il soggetto, dato che il soggetto logico è l’osservazione della Madonna che viene subito prima: «non hanno più vino». In Giovanni, i dativi sono due, chiaramente perché le persone a cui la cosa non importa sono due, Gesù e sua Madre: «Non hanno più vino. – E che importa (questo) a me e a te?».
Sappiamo poi da Giovanni che cosa accadde: Gesù – ben lungi dal mostrare freddezza verso di Lei – obbedì a Maria e incominciò i suoi miracoli, trasformando l’acqua in vino. Di qui i Padri trarranno a ragione la conclusione che bisogna pregare Maria per far intervenire Suo Figlio.

Ricorda

«Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: “Riempite d’acqua le giare” e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: “Ora attingete e portatene al maestro di tavola”. Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo e gli disse: “Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono”. Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui».
(Gv 2, 6-11).

Per saperne di più…

Ilaria Ramelli, TI EMOI KAI SOI GYNAI (John 2:4): Philological, Contextual, and Exegetical Arguments for the Understanding: “What Does This Matter to Me and to You?”, «Exemplaria Classica», 12 (2008), pp. 103-133.

 

 


IL TIMONE  N. 115 – ANNO XIV – Luglio/Agosto 2012 – pag. 26 – 27

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