«Egli (Giacobbe) aveva mandato Giuda davanti a sé da Giuseppe, perché questi desse istruzioni in Gosen prima del suo arrivo. Arrivarono quindi al paese di Gosen. Allora Giuseppe fece attaccare il suo carro e salì in Gosen incontro a Israele, suo padre. Appena se lo vide davanti, gli si gettò al collo e pianse a lungo stretto al suo collo. Israele disse a Giuseppe: "Posso anche morire, questa volta, dopo aver visto la tua faccia, perché sei ancora vivo"».
Gosen è un territorio fertile, situato a oriente del Nilo. È in quel luogo che avviene l'incontro di Giuseppe con suo padre. Vi sono momenti di gioia così grande difficili da descrivere. Quel lungo pianto di Giuseppe stretto al collo del padre e le commosse parole di Giacobbe, dette all'orecchio di Giuseppe, svelano l'intensità di quell'amore paterno e filiale; ma poiché non può esservi, nel cuore dell'uomo, qualcosa di più grande di quanto vi è nel cuore di Dio, bisogna pur pensare all'amore del Creatore per la sua creatura. Circa 15 secoli dopo quel giorno, il Figlio di Dio ci parlerà di un altro abbraccio, più significativo ancora, fra un padre e un figlio che ritorna a lui dopo averlo abbandonato.
Ma ora è tempo di agire con grande prudenza. Giuseppe deve dire una cosa importante a suo padre, ai suoi fratelli e a tutte le loro famiglie: egli andrà a informare il faraone del loro arrivo in Egitto. È certo che il faraone li farà chiamare e chiederà qual è il loro lavoro ed essi dovranno dirgli la verità e cioè che sono pastori di greggi. Quello che può sorprendere chi legge questo passo è la frase: «… perché tutti i pastori di greggi sono un abominio per gli egiziani».
Non sembra questo un argomento per accattivarsi la simpatia del faraone, né del suo popolo, ma è proprio questo che Giuseppe desidera. La sua gente deve stare ben distante da coloro che erano dediti all'idolatria e che ai loro idoli, adorati in templi magnifici, offrivano sacrifici e preghiere. La gente di Giacobbe, rude e semplice, sarebbe rimasta affascinata dallo sfarzo dei culti idolatrici e presto avrebbe distolto il suo cuore dal Signore. Facendosi conoscere come mandriani e pastori, gli egiziani stessi li avrebbero evitati.
Ancora una volta ci è rivelata la santità di Giuseppe e ci viene fatto di pensare che a lui, giovinetto, il padre abbia narrato il suo sogno a Betel e la sua misteriosa lotta presso il torrente Jabbok. Non era verosimile che Giuseppe, fanciullo, avesse chiesto a suo padre il perché di quella zoppia? Egli credeva nel Dio che aveva parlato ai suoi avi, Abramo, Isacco e a suo padre Giacobbe. Egli amava quel Dio che gli aveva fatto il dono di saper interpretare i sogni, con il quale aveva salvato molti popoli dalla morte per fame.
E venne il momento dell'incontro di Giacobbe con il faraone. Fu Giuseppe a presentarglielo ed è significativo il fatto che Giacobbe benedisse il faraone. Era un grande dono spirituale. Giacobbe svela al faraone che la sua vita è stata breve e infelice: «… centotrenta di vita errabonda, pochi e tristi sono stati gli anni della mia vita». Ciò non deve meravigliare poiché Isacco morì a 180 anni e Abramo a 175. Giacobbe sarebbe vissuto in Egitto ancora 17 anni. Forse presagiva che non sarebbe vissuto così a lungo come i suoi padri.
Ci sembra verosimile pensare che Giacobbe abbia chiesto a Giuseppe in qual modo fosse giunto in Egitto, perché gli era stata portata la sua veste macchiata di sangue e perciò aveva creduto che fosse stato sbranato da una belva. Forse Giuseppe, per non mentire e non coprire di infamia i suoi fratelli, avrà detto di essere sfuggito a quel pericolo con l'aiuto dei mercanti madianiti che poi l'avevano venduto come schiavo in Egitto. In quegli anni di schiavitù e di prigionia, mai aveva potuto dare notizia di sé. Avrà intuito Giacobbe, fissando il suo sguardo in quello di Giuseppe, qual era stata la verità di quel tristissimo evento?
Quante volte Giuseppe, in quei due anni da quando era viceré in Egitto, avrà desiderato di far sapere a suo padre che egli era vivo, ma quale sconquasso per la casa di suo padre sarebbe stata la conoscenza di quella verità. Ancora una volta, Giuseppe avrà confidato nella sapienza, nella potenza e nella bontà del Signore. Egli conosceva il suo cuore. A lui tutto è possibile. E se quella carestia doveva venire, ecco che egli era stato strumento di un grande disegno di Dio per il suo popolo.
IL TIMONE N. 37 – ANNO VI – Novembre 2004 – pag. 60