15.12.2024

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Giacobbe ritorna a Betel
31 Gennaio 2014

Giacobbe ritorna a Betel

 

 

 

 

«Dio disse a Giacobbe: “Alzati, va a Betel e abita là; costruisci in quel luogo un altare al Dio che ti è apparso quando fuggivi Esaù, tuo fratello”. Allora Giacobbe disse alla sua famiglia e a quanti erano con lui: “Eliminate gli dèi stranieri che avete con voi, purificatevi e cambiatevi gli abiti. Poi alziamoci e andiamo a Betel, dove io costruirò un altare al Dio che mi ha esaudito al tempo della mia angoscia e che è stato con me nel cammino che ho percorso”. Essi consegnarono a Giacobbe tutti gli dèi stranieri che possedevano e i pendenti che avevano agli orecchi; Giacobbe li sotterrò sotto la quercia presso Sichem. Poi levarono l’accampamento e un grande terrore assalì i popoli che stavano attorno a loro, così che non inseguirono i figli di Giacobbe».
In un momento di grande angoscia per l’orrenda strage dei sichemiti, il Signore parla ancora a Giacobbe. Ci pare di vederlo scavare la terra intorno a quella pianta che doveva essere impotente, se viene chiamata la quercia di Sichem, e farvi una fossa profonda per gettarvi dentro tutti quegli idoletti che, non solo le donne di Sichem, ma anche i suoi pastori, certamente avevano portato con loro dalla terra di Carran. Forse tutti lo stavano a guardare con una certa apprensione. L’idolatria è una superstizione tremenda, una follia umana che divinizza la materia inerte, un abominio agli occhi di Dio. E Giacobbe distrugge quell’abominio, con gioia.
Ora bisogna andare verso il vero Dio, a Betel.
Il Signore protesse Giacobbe da ogni assalto nemico: nessuno osò inseguirlo, nessuno osò porre il benché minimo ostacolo al suo cammino. L’onnipotenza di Dio è padrona del cuore umano; il terrore che Egli pose nell’animo dei cananei, che abitavano nei dintorni di Sichem, valse più di un potente esercito che li avesse affrontati: li paralizzò, li rese inerti.
Giacobbe intraprese il suo cammino con tutta la sua gente, fiducioso e tranquillo: il Signore gli aveva parlato! E giunse a Luz, città vicina al luogo dove il Signore gli era apparso quando fuggiva da Esaù e che egli aveva chiamato Betel, che significa casa di Dio.
Lì morì Debora, la nutrice di Rebecca, certo molto amata da lei, e fu sepolta sotto una quercia, detta poi “quercia del pianto”. Il Signore apparve ancora a Giacobbe, lo benedisse e gli parlò: «Il tuo nome è Giacobbe. Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele sarà il tuo nome… Io sono Dio onnipotente. Sii fecondo e diventa numeroso, popolo e assemblea di popoli verranno da te, re usciranno dai tuoi fianchi, il paese che ho concesso ad Abramo e a Isacco darò a te, e alla tua stirpe dopo di te darò il paese».
L’immensa gioia, che egli provò nell’udire ancora la voce del Signore, dovette dargli forza quando un altro tristissimo evento si abbatté su di lui: Rachele morì dando alla luce il suo secondo figlio che ella, soffrendo, voleva chiamare Ben-Oni, che significa “Figlio del mio dolore”. Ma Giacobbe cambiò quel nome in Beniamino, che significa “figlio della destra”.
Rachele fu sepolta presso Betlemme. Poi Giacobbe si recò a Mamre da suo padre Isacco, che aveva 180 anni, e questo fu certo un momento di grande gioia per entrambi. Di sua madre, Rebecca, non si parla più. Quando Isacco morì, Esaù venne a dargli sepoltura con Giacobbe e ormai l’animo suo, verso il fratello, era placato. Un grave affronto, che lo addolorò profondamente, Giacobbe subì da Ruben, suo primogenito: questi si unì a Bila, concubina del padre, schiava che Rachele stessa gli aveva dato perché da lei, almeno, potesse avere dei figli che furono Dan e Neftali.
Molto grandi furono le sofferenze di Giacobbe: dal forzato distacco dai suoi genitori, al penoso lavoro per Labano; dall’astio per lui dei cugini, al terrore per le minacce di Esaù; dai terribili fatti di Sichem alla morte di Rachele, tanto amata; dall’oltraggio subito da Ruben, all’apprensione per la condotta crudele di alcuni suoi figli; egli era giunto ormai totale abbandono in Dio solo.
Dio gli era apparso, gli aveva parlato, l’aveva stretto a sé in una misteriosa lotta, che il disagio e il dolore di una zoppia irrimediabile gli ricordava ad ogni passo. Ma ora lo attendeva una sofferenza tanto grande da annientare in lui ogni vigore: la creduta morte del figlio prediletto; ed egli visse vent’anni nel silenzio di Dio.
Eppure la sua fede non venne meno. Egli non sapeva che il Signore voleva nominarsi anche da lui: «Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». E la sua santità doveva raggiungere, proprio e solo attraverso il dolore, un’altissima vetta.
(continua).

IL TIMONE – N. 30 – ANNO VI – Febbraio 2004 – pag. 60

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