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Giappone 1945: l’ecatombe atomica
31 Gennaio 2014

Giappone 1945: l’ecatombe atomica

 

 

 

 
Nell’agosto di sessant’anni fa due bombe atomiche vennero sganciate sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. Un numero spaventoso di morti. La resa del Giappone e l’immenso dolore dell’Imperatore giapponese e del suo popolo. Riflettere perché tanto orrore non si ripeta mai più.
 
 
 
Il 6 agosto di sessant’anni fa fu sganciata la bomba atomica su Hiroshima. Il 9 agosto su Nagasaki (quest’ultima città, da quattro secoli “capitale” dei cattolici giapponesi). Era stato Harry S. Truman, presidente degli Stati Uniti dal 12 aprile 1945, ad autorizzare la prima esplosione sperimentale della bomba atomica, poi effettuata il 16 luglio nella zona desertica di Alamogordo (New Mexico). Per realizzare l’ordigno, gli Stati Uniti avevano speso due miliardi di dollari. L’esplosione aveva causato una devastazione totale nel raggio di un chilometro e mezzo. Tra coloro che sostenevano l’opportunità di impiegare la nuova arma “a sorpresa”, cioè senza alcun preavviso, né ultimatum, nei confronti del nemico, c’erano anche due di coloro che l’avevano scoperta: Enrico Fermi e Robert Oppenheimer. E anche quella poteva considerarsi una conseguenza atroce della follia antisemita hitleriana. Fermi era infatti un italiano marito di un’ebrea che era stato spinto a lasciare Roma a seguito delle leggi razziali del 1938, Oppenheimer era un ebreo tedesco.
Prima del fatale 6 agosto 1945, il giorno fissato per l’inferno su Hiroshima, l’U.S. Air Force aveva compiuto migliaia di micidiali incursioni sul Giappone, a partire dal primo bombardamento di Tokio del 18 aprile 1942, che aveva segnato la ripresa americana dopo il blitzkrieg dell’ammiraglio Isoroku Yamamoto.
L’aereo scelto per lanciare la bomba atomica su Hiroshima era un B-29, il suo nome Enola Gay dal nome (e cognome da ragazza) della madre del suo comandante, il ventinovenne colonnello Paul W. Tibbets. La bomba, all’uranio, equivaleva a 20.000 tonnellate di esplosivo ordinario. Polverizzò l’80 per cento degli edifici di Hiroshima e incenerì circa 70 mila persone lasciandone ferite, piagate e destinate a morire di leucemia altre 180.000.
Tre giorni dopo, il 9 agosto 1945, fu lanciata la seconda atomica (al plutonio), su Nagasaki: 40.000 abitanti rimasero inceneriti, altri 60.000 colpiti. In totale, dunque, le due atomiche causarono 110 mila morti, 240 mila condannati a morte certa e un numero incalcolabile di persone destinate a essere colpite dal cancro a causa della radioattività.
Il giorno prima, l’8 agosto, informato delle spaventose conseguenze della bomba su Hiroshima, e calcolando che ormai il Giappone era in ginocchio, Stalin aveva dichiarato guerra al Mikado e invaso la Manciuria e la Corea, creando così le basi di una futura, sanguinosa guerra. Nessuno aveva parlato, a proposito del suo gesto, di “pugnalata alle spalle”, come invece era stata definita, da tutta la stampa del mondo, esclusa quella dell’Asse, la decisione di Benito Mussolini di dichiarare guerra alla Francia il 10 giugno 1940. Anche perché nell’agosto 1945 una stampa dell’Asse non esisteva più.
Rispettando tutte le previsioni, l’imperatore Hiro Hito, sgomento per le stragi di Hiroshima e Nagasaki, accettò la resa senza condizioni “fatta salva la nostra sovranità”, formula con la quale egli sacrificava tutti i suoi più fedeli collaboratori ma salvava la corona e l’esistenza stessa dell’impero del Sol Levante. L’atto di resa fu sottoscritto il 2 settembre 1945 a bordo della corazzata americana Missouri, ancorata nella baia di Tokio, alla presenza del generale Douglas MacArthur. Il Giappone fu occupato militarmente dall’esercito e dalla Marina Usa e venne creato, come a Norimberga, un Tribunale internazionale con sede a Tokio che condannò a morte numerosi generali e uomini politici, tra i quali il primo ministro Hideki Tojo, poi impiccati (quelli che non se l’erano sentita o non erano riusciti a procurarsi il pugnale con cui suicidarsi) nel dicembre 1948.
Come ogni anno, in occasione dell’anniversario della tragedia, anche quest’anno le città di Hiroshima e Nagasaki commemorano i loro morti esponendo, nei rispettivi “parchi della pace”, i libri con l’elenco dei nomi degli “hibakusha”, le persone colpite sessant’anni fa dalle radiazioni e che continuano a morire a causa di esse. Ogni anno sono oltre quattromila. Soltanto a Hiroshima, il numero totale delle vittime è, ad oggi, di oltre 230 mila (70 mila il giorno dell’esplosione, le altre negli anni e decenni seguenti).
Una stima attendibile fissa in almeno 250 mila gli “hibakusha” ancora in pericolo di vita. Alla luce di questi dati, si può comprendere lo sdegno con cui fu accolta, in Giappone, due anni fa, la decisione dell’aviazione militare americana di restaurare l’Enola Gay ponendolo al centro di una mostra celebrativa tenutasi a Washington con la partecipazione dell’allora colonnello – e oggi generale di Corpo d’Armata in pensione – Paul W. Tibbets, che, per l’occasione, presentò il libro autocelebrativo “The return of the Enola Gay”. Paul Tibbets non si è mai pentito. Nel suo libro ha scritto: «Personalmente non ho rimorsi. Non mi posi mai un problema morale: feci quello che mi avevano ordinato di fare». Identica la posizione di Fred Olivi, il copilota italo-americano del bombardiere “Bockstar” che sganciò la seconda atomica su Nagasaki. «Non mi sono mai pentito», ha detto in un’intervista: «solo un secondo prima di sganciare la bomba ho pensato che stavamo per uccidere vecchi, donne, bambini. Poi, mi sono venuti in mente quei bambini e quelle donne giapponesi che andavano incontro ai soldati americani con bastoncini avvelenati nascosti per ucciderli».
Una freddezza non condivisa dal capitano Robert Lewis, imbarcato sull’Enola Gay e incaricato di osservare con un binocolo le conseguenze dell’esplosione. «Dio mio, cosa abbiamo fatto!», scrisse a conclusione del suo rapporto. Ma soprattutto, non condivisa dal vero, grande pentito della strage, Claude Heatherly, il pilota del bombardiere Straight Flush, incaricato di effettuare la ricognizione su Hiroshima all’alba del 6 agosto, di individuare con esattezza il bersaglio e di comunicarne le coordinate all’Enola Gay. Heatherly aveva solo 24 anni ed era già maggiore: si era guadagnato i gradi abbattendo 33 aerei nemici. Un “duro”, quindi, ma anche un uomo. «Trasmesso il messaggio in codice», scriverà, «mi allontanai in fretta, come mi era stato ordinato, ma non abbastanza. La potenza della bomba mi terrorizzò. Hiroshima era sparita dentro una nube gialla». Per lui fu l’inizio di un calvario.
Perduto il sonno, si dimise dall’Aeronautica militare e volle che la sua liquidazione fosse versata a una associazione di vedove dei Caduti. Ogni notte si svegliava urlando: “Gettatevi! Arriva la nuvola gialla!”. Contattato dal filosofo tedesco Günther Anders, che si era votato a lottare contro gli orrori di Auschwitz e di Hiroshima, intrattenne con lui una lunga corrispondenza, pubblicata poi anche in Italia nel libro “Il pilota di Hiroshima, ovvero: la coscienza al bando” (Linea d’Ombra, Milano, 1992). Celebre la sua lettera con richiesta di perdono inviata agli abitanti di Hiroshima nell’agosto 1960. Gli risposero con parole fraterne, dicendogli che anch’egli doveva considerarsi “una vittima della bomba”. Morì pochi anni dopo.
Sul piano della grande storia, devono essere ricordate le parole di tre Grandi: un bugiardo, un furbo e un santo. Il bugiardo fu il presidente Harry Truman il quale, all’indomani dell’ecatombe, dopo aver messo il bavaglio agli inviati speciali americani, dichiarò alla stampa internazionale: «Le due bombe atomiche hanno colpito obiettivi militari». Il furbo fu Winston Churchill che nelle sue memorie scrisse: «Il popolo giapponese poteva trovare nell’apparizione di quest’arma quasi soprannaturale una scusa tale da salvare il proprio onore e liberarlo dall’obbligo di farsi uccidere fino all’ultimo uomo». Il santo fu Papa Giovanni Paolo II, che, in visita a Hiroshima il 25 febbraio 1981, disse: «Hiroshima e Nagasaki hanno subìto la sorte di diventare il memoriale di come l’uomo sia capace di una distruzione incredibile. I loro nomi debbono mettere in guardia le generazioni future su come la guerra possa distruggere gli sforzi umani intesi a creare un mondo di pace».

Un eroe cristiano: Takashi Nagai
Nagasaki non è solo il luogo della morte e dell’orrore a causa della bomba atomica. In questa città martirizzata visse un uomo che seppe trasformare il dolore per l’accaduto in una feconda testimonianza di cristianesimo vissuto.
Takashi Nagai era nato a Matsue nella prefettura di Stimane il 3 febbraio 1908 in una famiglia di antichi discendenti samurai. Accostatosi al cristianesimo attraverso la lettura degli scritti di Blaise Pascal (1623-1662) e grazie all’incontro con la futura moglie Midori, della famiglia cattolica dei Moriyama, si convertì definitivamente nel 1933, al ritorno dalla guerra in Manciuria, quando scelse di salire la collina dei 26 martiri cristiani di Nagasaki, dove si trova la cattedrale di Urakami, invece che rituffarsi nella vita mondana della città. Verrà battezzato nel giugno 1934 e prenderà il nome di san Paolo Miki, martire del Giappone, e nello stesso anno si sposerà con Midori. Radiologo, contrasse la leucemia in seguito alla continua esposizione ai raggi X, necessaria per la sua professione, ma soprattutto perse la moglie in occasione del bombardamento atomico. Rimasto solo con i due figli non si fece mai prendere dall’odio e dal rancore ma testimoniò, nei sei anni di vita trascorsi dopo il lancio dell’atomica, la virtù della speranza e dell’amore verso chiunque, ma anche la necessità del sacrificio liberamente accolto al fine di trasformare il mondo. «Io credo – disse ricordando il tragico epilogo della sua città d’adozione – che fu Dio, la Sua Provvidenza a portare esattamente la bomba sulle nostre case. Non fu forse Nagasaki la vittima scelta, l’agnello del sacrificio ucciso per essere offerta perfetta sull’altare dopo tutti i peccati commessi dalle nazioni nella Seconda Guerra Mondiale?». Fu forse anche grazie al suo esempio se cominciò a circolare fra i giapponesi il proverbio “Hiroshima urla, Nagasaki prega”. Aveva compreso che la pace sarebbe venuta soltanto come effetto della conversione del cuore e grazie al sacrificio personale. Il medico santo morirà il primo maggio 1951 stringendo fra le dita la corona del Rosario regalatagli da papa Pio XII e dopo aver ricevuto la visita dell’Imperatore: «Pregate, per favore, pregate» furono le sue ultime parole.
Sulla vita di Takashi Nagai si può leggere Paul Glynn, Un canto per Nagasaki, edizione extra commerciale (presso famiglia Trevisan, tel. 045.6401261,
e-mail: 4t.trevisan@libero.it)

 
 
 
 
BIBLIOGRAFIA
 
Bernard Millot, La guerra del Pacifico 1941-1945, trad. it., BUR 2002.
Leandro Castellani, Luciano Gigante, Storia della bomba atomica, Orpheus libri, 1967.
Winston Churchill, La seconda guerra mondiale, Bur, 2000.
Basil H. Liddel Hart, Storia militare della seconda Guerra mondiale, Mondadori, 1970
John Rawls, Hiroshima 50 anni dopo. Perché non dovevamo, Donzelli, 1995.
Luciano Garibaldi, Un secolo di guerre, White Star, 2001.
Karl Brukner, Il gran sole di Hiroshima, Giunti, 2003.
 
 
 
 
 
 
IL TIMONE – N. 46 – ANNO VII – Settembre/Ottobre 2005 – pag. 22 – 24
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