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12.12.2024

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Giganti della carità
31 Gennaio 2014

Giganti della carità

Centinaia di migliaia di benefattori. Ventimila solo in Italia. Dal 1947, l’associazione Aiuto alla Chiesa che Soffre, fondata dal mitico “Padrelardo”, aiuta concretamente i cristiani perseguitati e minacciati. Intervista a Attilio Tamburini, direttore del Segretariato Italiano.

Fate la carità! Ma la facciamo ancora, noi italiani, noi cattolici? Vien da chiederselo, tra il semaforo dove staziona il solito lavavetri albanese (sarà un povero vero oppure no?) e la televisione che propone l’ennesima iniziativa umanitaria. Siamo ancora capaci di essere generosi, di soccorrere i poveri, di aiutare concretamente il prossimo?
Attilio Tamburrini può avere il polso della situazione. Da 10 anni siede infatti come direttore nell’ufficio italiano di«Aiuto alla Chiesa che soffre» (Acs): organizzazione fondata nel 1947 da «Padrelardo», un religioso olandese che divenne un «gigante della carità» cominciando a raccogliere fette di lardo per le poverissime popolazioni reduci dall’ultima guerra mondiale, passando poi ad aiutare i cristiani dell’Est perseguitati dai regimi comunisti, quindi allargatosi a tutte le esigenze della carità evangelica nel mondo.

Anzitutto, Tamburrini: esiste ancora la generosità nella gente, oppure siamo diventati – come si dice spesso – tutti più chiusi, individualisti, insomma egoisti?
«Dal punto di vista personale, confesso che la mia è un’esperienza entusiasmante: dal mio ufficio e girando per conferenze e incontri, scopro infatti un mondo che normalmente non è conosciuto, anche perché la tendenza a fare beneficenza in modo anonimo è assai radicata. E si tratta di un mondo di generosità impressionante, soprattutto da parte di piccoli donatori. Ricevo lettere di pensionati con la “sociale” che in quaresima hanno rinunciato per una settimana alla carne per inviare la loro offerta; c’è la ragazza che dona il suo primo stipendio, due suore che girano i doni ricevuti per l’anniversario d’ingresso in clausura, idem certi coniugi che in occasione delle nozze d’oro chiedono ai parenti piccole somme da devolvere ai poveri…».

Dunque esiste ancora l’«obolo della vedova»…
«Noi abbiamo circa 20 mila benefattori, con una media di due offerte l’anno per ciascuno; e si tratta in genere di donazioni piccole per quanto riguarda la somma (dai 10 ai 50 euro), benché grandi nell’intenzione. Tengo in ufficio certi bollettini di conto corrente “esemplari”, e li mostro ai beneficati – per esempio i seminaristi terzomondiali che ricevono le nostre 350 borse di studio – così da dimostrare che gli aiuti arrivano loro da gente normale, anche povera, non da anonimo e astratto ente governativo. E’ molto importante, dal punto di vista educativo: ricordo un prete che, a pranzo con una famiglia di benefattori, scoprì al momento del dolce che vi rinunciavano regolarmente proprio per dare l’equivalente al suo seminario… Insomma, nella carità non si sa chi riceve di più: il donatore che ha un’occasione per compiere una buona azione, o il ricevente che sperimenta il vero amore cristiano».

Ma è vero che si preferisce offrire per una causa «umanitaria» (un ospedale, ad esempio) piuttosto che per una specificamente «cristiana» (la costruzione di una chiesa)?
«Di recente abbiamo promosso un’inchiesta per sapere qual era la priorità dei nostri donatori riguardo la destinazione delle offerte; ebbene, oltre la metà propendeva per la formazione del clero. Sarà che l’Acs ha sempre sensibilizzato verso l’azione pastorale; ma credo pure che non conosciamo abbastanza i benefattori: spesso sono persone orientate a soddisfare un bisogno spirituale, più che una necessità puramente materiale. Per esempio l’anno scorso ha avuto molto successo il progetto per acquistare 450 mila piccoli Bambini Gesù che i vescovi cubani volevano distribuire ai fedeli per Natale».

Ma i cattolici aiutano solo i cattolici nel mondo?
«No, tutt’altro. Noi ad esempio aiutiamo da sempre la Chiesa ortodossa in Russia: trasformiamo i vecchi battelli del Volga in cappelle galleggianti che si fermano nei villaggi lungo il fiume e tale attività – che all’inizio suscitava perplessità proprio perché gestita da preti ortodossi – ora è accettata senza problemi. Idem per i cristiani ortodossi in Etiopia. O per gli interventi in certi Paesi islamici, dove finanziamo centri multifunzionali con cappelle e iniziative sociali: non esiste nessuna preclusione. Anzi, il principio di aiutare i musulmani a casa loro è ormai largamente accettato, anche perché la gente pensa di favorire così gli islamici moderati, oltre ad incentivare la presenza cristiana così difficile in quelle regioni».

Ormai anche i «laici» fanno beneficenza, vedi Telethon, Emergency e affini. Con quali conseguenze per voi?
«In effetti la proliferazione di enti che fanno beneficenza crea problemi di concorrenza. In particolare, certe iniziative largamente appoggiate dalla tv generano operazioni di drenaggio delle buone intenzioni su cui andrebbe fatta qualche verifica, perché i costi propagandistici sono impressionanti e spesso la gestione viene affidata a società specializzate. Noi riusciamo a garantire che più del 70% di quanto si raccoglie arriva al destinatario, ma certe organizzazioni sono ben lontane da queste percentuali… Comunque, Padrelardo ha sempre sostenuto che le buone intenzioni degli altri non vanno discusse. E poi non è affatto vero che, moltiplicando gli enti di beneficenza, diminuiscono le somme a disposizione di ciascuno: succede invece che si dia a uno e poi anche all’altro, naturalmente se si incontra qualcosa che smuove il cuore».

Si dice che viviamo in un’epoca di «buonismo», cioè generosità sentimentale e legata all’immagine. E’ così?
«No, di solito la gente normale è concreta e pensa a fare il bene per motivazioni solide, per carità cristiana ad esempio o per obbedire a una richiesta evangelica. Però è vero che nelle nuove generazioni è fortissimo l’aspetto sentimentale del dono, si privilegia cioè la gratificazione personale; ma questo dipende da una carenza educativa, si tratta di reazioni indotte pigiando certi bottoni dai mass media. In certi Paesi nordici o negli Usa, difatti, le campagne per la raccolta di fondi sono basate su una storia molto personalizzata, che colpisca l’immaginazione».

Dunque è destinata a cambiare la beneficenza del futuro?
«Beh, sta già cambiando. Ad esempio, ormai non c’è parrocchia italiana che non abbia il suo progetto missionario, grazie alla facilità di comunicazione che permette contatti diretti senza bisogno di intermediari come le nostre organizzazioni. Così noi ci siamo orientati verso obiettivi che gli altri non toccano, come gli interventi post-emergenza: così nei luoghi dello tsunami, passata l’ondata della solidarietà internazionale, abbiamo finanziato la ricostruzione di cappelle e abitazioni dei sacerdoti, alle quali nessuno aveva pensato».

Espedienti tecnici come le detrazioni fiscali o il «5 per mille» aiutano la generosità?
«Possono favorirla nel caso di donazioni cospicue, non cambiano però la pratica dei benefattori comuni. Direi che aprono un diverso canale, stimolano il dono da parte di realtà che altrimenti non sarebbero nemmeno sfiorate dall’idea, come le aziende. Ma non toccano il singolo».

Serve ancora fare l’elemosina?

«Questo è un problema serio, perché a volte di fronte a un mendicante si viene colti da scrupoli e si sente il dovere di dare il proprio obolo. Ricordo tuttavia che fratel Ettore (il frate dei barboni della Stazione Centrale di Milano) sconsigliava questo tipo di carità, in quanto spesso stimola involontariamente la nascita di bande organizzate per lo sfruttamento degli accattoni, anziché aiutarli davvero. Bisogna dunque stare attenti per evitare di creare danni: il gesto gratis et amore Dei è senz’altro molto bello, ma in un certo senso rischioso; trovare il povero “vero” non è così semplice. Incredibile, eh? Sono tempi difficili persino per fare l’elemosina…».

Dossier: Grazie Chiesa

IL TIMONE – N. 58 – ANNO VIII – Dicembre 2006 – pag. 42 – 43

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