Non abitano nelle foreste del Borneo ma vivono come se fossero nella giungla. Giovani e “adulti”, irresponsabili e trasgressivi, dimentichi di Dio, compiono atti orribili. Leggere la cronaca.
È il frutto del secolarismo.
Desirèe, 14 anni, massacrata da amichetti sedicenni. Otto persone due famiglie intere, sterminate a Chieri da un loro familiare. A Reggio Emilia, un uomo ha ucciso la moglie, la figlia e il fidanzato di lei, e ripreso tutto con una telecamera. Nell’ondata di omicidi che colpito l’Italia in ottobre c’è qualcosa di così ignobile e ripugnante, da far pensare all’irruzione di una forza luciferina nella vita quotidiana. Come se un invisibile argine si sia spaccato, è l’odio puro, la pura malvagità, siano liberi di dilagare senza ritegno.
Persino alcuni avvocati hanno detto che i loro clienti sono dominati da Satana.
Satana, d’accordo. Prima però guardiamo cosa abbiamo fatto della nostra società.
Diceva un filosofo: la società viene continuamente invasa dai barbari. Questi barbari non vengono dalle steppe dell’Asia, ma nascono fra di noi: sono i nostri figli. Ogni bambino che nasce fra noi è naturalmente un barbaro. Non sa nulla della civiltà.
Bisogna insegnargli tutto: le tecniche (è facile), ma soprattutto a padroneggiare i suoi istinti, a distinguere il bene e il male, le giuste relazioni sociali, il comportamento ammesso nella comunità. Bisogna trasmettergli tutto ciò che la civiltà ha conquistato prima di lui. Altrimenti, ogni generazione è condannata a ricominciare da capo la risalita dalla barbarie.
Insomma, da sempre la civiltà civilizza i suoi barbari interni, i giovani. Ma dal ’68 – l’anno della secolarizzazione compiuta – questo processo di educazione è deriso e interrotto: è “tradizionalismo” (“tradizione” deriva infatti da “tradere”, che vuoi dire “consegnare” ai figli ciò che hanno appreso i padri), e l’educazione “tradizionalista” è stata liquidata perché “autoritaria”.
Risultato? Guardate i nostri giovani, non tutti ma tanti. A scuola, occhio sperso nel vuoto: il selvaggio non sa concentrarsi, e fatica a imparare.
Si adornano di orecchini e tatuaggi, proprio come i selvaggi. Vivono da gregari in piccoli branchi (tribù): non hanno un “io” individuale, è il branco che pensa e agisce in loro, e per loro. Non comunicano: il loro linguaggio è inarticolato, incapace di esprimere sfumature.
Il punto è che, ormai, abbiamo tra noi selvaggi trentenni, che vivono nella civiltà come se fosse la foresta primordiale. Usano dei beni artificiali della società – Coca Cola, telefonino, auto, leggi, servizi medici, armi da fuoco – come se nascessero spontanei sui rami. Invece la civiltà è un artefatto, che ha bisogno di continua manutenzione, ossia della nostra responsabilità, per funzionare.
I nostri figli neo-selvaggi, credendo che sia “natura”, non si sentono responsabili del suo mantenimento: la sfruttano soltanto, e la deteriorano.
Come i selvaggi del Borneo, non pensano al “dopo”, alle conseguenze dei loro atti.
Badano solo, da selvaggi, a soddisfare i loro impulsi primari.
Nell’altra persona – Desirée o la moglie o il compagno di scuola – vedono una preda o un possesso.
Il loro modo di relazione sociale è quello dei primitivi: basato sui rapporti di forza.
Vili e sottomessi coi forti, essi sono violenti coi deboli. Peggio. I nostri ragazzi conoscono il sesso prima che la responsabilità.
Giornaletti pomo e tv “sporca” non sono più vietati a loro, anzi tutta la società li incita alla “trasgressione”, la sublimazione della sessualità in energia positiva, per “belle imprese”, era essenziale per civilizzare i barbari interni. Oggi, il soddisfacimento diretto della sessualità deforma queste personalità incomplete, inarticolate, per sempre: i nostri neo-selvaggi sono flaccidi. Incapaci di sforzo per migliorarsi, inerti, e aperti “a tutte le esperienze”. È qui, a questo punto, che si insinua Satana. Perché non trova resistenze interiori, e nemmeno previdenza, in quelle anime torbide e inerti, le spinge ad atti ignobili e irrimediabili.
– Ma è stato il secolarismo a far sparire in quelle anime gli argini. Come diceva Dostojevsky: “Se Dio non c’è, tutto è possibile fare”.
Anche il peggio.
RICORDA
“Parlare di peccato sociale vuoi dire, anzitutto, riconoscere che, in virtù di una solidarietà umana tanto misteriosa e impercettibile quanto reale e concreta, il peccato di ciascuno si ripercuote in qualche modo sugli altri. È, questa, l’altra faccia di quella solidarietà che, a livello religioso, si sviluppa nel profondo e magnifico mistero della comunione dei santi, grazie alla quale si è potuto dire che “ogni anima che si eleva eleva il mondo”. A questa legge dell’ascesa corrisponde, purtroppo, la legge della discesa, sicché si può parlare di una comunione del peccato, per cui un’anima che si abbassa per il peccato abbassa con sé la Chiesa e, in qualche modo, il mondo intero. In altri termini, non c’è alcun peccato, anche il più intimo e segreto, il più strettamente individuale, che riguardi esclusivamente colui che lo commette. Ogni peccato si ripercuote, con maggiore o minore veemenza, su tutta la compagine ecclesiale e sull’intera famiglia umana”.
(Giovanni Paolo Il, Reconciliatio et paenitentia, n. 16).
IL TIMONE N. 22 – ANNO IV – Novembre/Dicembre 2002 – pag. 6 – 7