Da sempre l’uomo ha una forte percezione del mistero e avverte un desiderio di un Padre celeste. Ma solo il cristianesimo ne ha rivelato il vero volto
Lo studio comparato delle lingue indoeuropee ci permette, attraverso l’esame dei dati linguistici e culturali, di gettare uno sguardo su fasi remote della preistoria, quando le tribù indoeuropee, anteriormente al lungo periodo di migrazione che le portò a stanziarsi in sedi storiche che andavano dall’Islanda ai confini orientali dell’India, costituivano ancora una sostanziale unità etnica e linguistica.
In una data difficile da precisare, ma certamente anteriore al I millennio a.C., queste popolazioni, presumibilmente ancora seminomadi e dedite alla pastorizia, avevano sviluppato un bagaglio di idee e di valori. Sarebbe un errore credere che al carattere arretrato della loro organizzazione sociale ed economica corrispondesse una minore sensibilità religiosa.
Antiche concezioni religiose
Dei Persiani antichi lo storico greco Erodoto ci fa sapere (Storie, I, 131) che essi fanno i loro sacrifici salendo sulla cima della montagna più alta, e che onorano come somma divinità la volta celeste: oltre a questa, venerano il sole, la luna, la terra, il fuoco, l’acqua, i venti. Dei Galli Giulio Cesare dice che «onorano come dèi solo quelli che vedono e dalle cui prerogative traggono giovamento: il sole, il fuoco, la luna» (De Bello Gallico, 6, 21). Sui Germani lo storico romano Tacito osserva che «non ritengono che si possano costringere gli dèi tra le mura né che si possano rappresentare in forma umana, per la loro grandezza: consacrano agli dèi boschi e selve, e chiamano col nome di dèi quell’intimo mistero che percepiscono solamente con la riverenza» (Germania, 10).
Non erano stati ancora elaborati i racconti mitologici dell’epoca successiva, non vi erano divinità antropomorfe, ma i risultati delle nostre ricerche mettono in luce un modo di pensare in cui l’uomo cerca nel visibile i segni di quell’invisibile che deve esserci sopra e oltre lui.
L’uomo primitivo cerca gli dèi nel cielo. Gli Sopra: maschera di Indra, bellicosa divinità indiana. dèi si fanno presenti negli eventi atmosferici, sono negli elementi naturali che contribuiscono a migliorare e a fare progredire la vita dell’uomo. Vi è una percezione del mistero forte, anche se confusa.
Il dio principale
Il riconoscimento del cielo come dio principale risulta anche dalla terminologia. Nelle lingue indoeuropee antiche il termine fondamentale per designare la principale divinità fa capo a una radice che evoca l’idea della luce e del calore: da questa radice sono derivati sia il nome del dio (il greco Zeus come l’indiano Dyaus, il cielo) sia vari termini per “giorno” (p. es. il latino dies) o “calore”.
Uno degli epiteti di Giove nel mondo romano è Lucerio, il dio della luce. Questo dio è padre del creato e spesso apostrofato col nome di “padre”. Nel nome latino di Giove, Iupiter (da Dieu-pater), è sintetizzata in un’unica parola l’idea del cielo luminoso e della paternità, e nei poemi omerici Zeus è spesso chiamato «padre degli uomini e degli dèi». Egli ha un’arma, la folgore, la cui potenza fa tremare le montagne e scuote la terra. Salire sulla cima del monte più alto significa avvicinarsi a lui. Nell’alternanza tra il cielo sereno e il buio, il freddo, le intemperie è trasfigurata l’eterna lotta fra il bene e il male.
Se il dio è designato come l’essere celeste, per un passaggio naturale e logico l’uomo deve essere indicato come l’essere che sta sulla terra, il terrestre. In latino homo è legato con humus, la terra, e termini simili si ritrovano anche in altre tradizioni. Questo evoca immediatamente l’idea di una fragilità che si contrappone all’eternità divina: il cielo è per sempre, mentre gli impasti di terra sono fragili e destinati a vita breve (un tema su cui anche la Bibbia e la liturgia cattolica ci richiamano: «Ricorda, uomo, che sei polvere», Gen 3,19). In Omero gli dèi sono coloro «che sono per sempre», mentre l’uomo è l’effimero, il mortale. In diverse lingue per designare l’uomo si usano termini che originariamente significano “mortale”.
Subentrano divinità bellicose
Fra questa fase primitiva e il momento dell’arrivo nelle sedi storiche si hanno molti cambiamenti di prospettiva. L’immagine del dio cielo subisce un offuscamento. Gli nuoce il fatto di essere rappresentato come un dio pacifico, chiuso nella sua solitudine: non ha partecipato né alla creazione del cosmo, spesso affidata a figure di divinità minori, né alla lotta contro le potenze negative che lo popolano, e non ha una compagna e quindi una speranza di progenie: per questo subisce la concorrenza di figure divine più incisive: giungendo nelle sedi storiche gli Indoeuropei devono spesso lottare per conquistare i terreni nei quali esercitare le loro attività agricole e pastorali, e dunque hanno bisogno di divinità pronte al combattimento e vittoriose. Al pacifico dio cielo subentrano divinità come Indra nella mitologia indiana o Wotan in quella germanica.
Inoltre, in alcuni casi gli Indoeuropei incontrano popolazioni che hanno le loro divinità non nel cielo, ma nella terra. In Grecia come in India, la religione degli eventi celesti si scontra (e alla fine si fonde) con la religione del ciclo agricolo: i combattimenti fra divinità e spiriti malevoli o mostri sono la trasfigurazione mitica di queste lotte primitive: generazioni di dèi che sostengono combattimenti cosmici, gli dèi giovani degli invasori si scontrano con gli dèi della generazione precedente: essi escono vittoriosi dalla lotta, ma sono costretti a qualche concessione. Il dio cielo esce dalla sua solitudine e trova una compagna, la madre terra: nei Veda, il più antico testo sacro dell’India, che rappresenta insieme la fase finale di questo processo e l’inizio di un’elaborazione nuova, al padre cielo viene dedicato solo un inno, mentre diversi inni sono dedicati alla coppia cieloterra. L’assunzione della terra a divinità impedisce di designare ancora l’uomo come terrestre: molte tradizioni introducono nuovi termini per “uomo”, evitando il richiamo a quella terra che ormai è divenuta consorte del cielo e dea: si accolgono parole straniere, oppure si introducono altre immagini, come nelle lingue germaniche, dove l’antico termine dell’uomo come essere terrestre (ancora vivo nel gotico guma) è sostituito da un termine che designa l’uomo come essere pensante (l’inglese man o il tedesco Mann sono collegati con la radice che troviamo nel latino mens, “mente”).
Presagi del Dio Padre cristiano
È solo un’immagine confusa, incerta e annebbiata, quella che ricaviamo, ma tale da metterci davanti agli occhi quel bisogno di confronto con l’infinito che l’uomo ha innato dentro di sé, quel desiderio di paternità e quello sforzo di ricerca a cui un autore cristiano primitivo, Eusebio di Cesarea (IV secolo), darà nome di «preparazione evangelica ». Il desiderio di guardare oltre e in alto è insito nell’uomo: Gesù, quando ci insegna la più bella preghiera che il Cristianesimo conosca, ci invita a rivolgerci a un Padre che è nei cieli. È un Padre benevolo, che ha un volto e ci guarda: ma per conoscerlo era necessaria la Rivelazione: l’uomo da solo non poteva arrivarci.
RICORDA
«La stima e il rispetto verso le religioni del mondo, così come per le culture che hanno portato un obiettivo arricchimento alla promozione della dignità dell’uomo e allo sviluppo della civiltà, non diminuisce l’originalità e l’unicità della rivelazione di Gesù Cristo e non limita in alcun modo il compito missionario della Chiesa».
(Intervento del cardinale Joseph Ratzinger in occasione della presentazione della Dichiarazione “Dominus Iesus”, reperibile in internet).
IL TIMONE N. 116 – ANNO XIV – Settembre/Ottobre 2012 – pag. 26 – 27
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