A cent’anni dalla nascita, ricordiamo “Ginettaccio” Bartali, uomo di fede e campione esemplare nello sport e nella vita. Si prodigò per salvare centinaia di ebrei dai lager nazisti e la sua vittoria al Tour nel 1948 salvò l’Italia dalla guerra civile
Roma, 14 luglio 1948. Antonio Pallante, studente di giurisprudenza, fanatico qualunquista, spara tre colpi di pistola contro Palmiro Togliatti, capo del Partito comunista, che viene ricoverato in gravi condizioni. Mentre la Cgil proclama lo sciopero generale, i comunisti scendono in piazza armati. Come altri centri del Piemonte, dell’Emilia e della Toscana, in quei giorni Genova è nelle mani dei partigiani, che percorrono le strade della città e occupano Comune, Prefettura e altri palazzi pubblici. Girano su camion lanciando sventagliate di mitra in aria, indossano fazzoletti con falce e martello, mostrano stelle rosse sul petto. Ne conservo un ricordo indelebile: ero studente di terza media dell’istituto Calasanzio, nel quartiere genovese di Cornigliano. Ma altrettanto nitidamente ricordo come, giorno dopo giorno, mentre si avvicinava l’ultima tappa del Tour de France, tutti i partigiani corressero nei bar per ascoltare le radiocronache di cui era protagonista Gino Bartali. Aveva un distacco di 20 minuti dall’imbattibile Louison Bobet. Ma sul colle dell’Izoard, il 15 luglio, il giorno dopo l’attentato, vinse la tappa Cannes-Briançon riducendo drasticamente la distanza dall’avversario. Diminuiva il distacco, e cresceva l’entusiasmo degli italiani. Erano coinvolti tutti: uomini, vecchi, bambini, ma soprattutto i rivoltosi comunisti. Fu un crescendo inarrestabile, che si concluse il 25 luglio a Parigi, dove Bartali tagliò il traguardo con un vantaggio di ben 20 minuti. Dovunque gli italiani si abbracciavano entusiasti, dimenticando odi e rivalità.
“Il De Gasperi del ciclismo”
Erano, quelli, anni in cui la passione politica correva assieme alle due ruote delle biciclette e ai tre assi del ciclismo italiano: Fausto Coppi “il compagno” (di sinistra ma non necessariamente aderente al Pci; era comunque di Genova, città rossa per eccellenza), Fiorenzo Magni “il fascista” (aveva militato nella Repubblica di Salò) e Gino Bartali “il democristiano” (anche se non iscritto al partito di De Gasperi, era un cattolico convinto e praticante). Indro Montanelli, sul Corriere della Sera, aveva definito Coppi «il Togliatti della strada» e Bartali «il De Gasperi del ciclismo».
Ma come e dove era nata l’incrollabile fede di Bartali? Nella sua famiglia (il papà, Torello, e la mamma, Adriana, erano cattolici osservanti) e nel suo paese, Ponte Ema, provincia di Firenze, dov’era nato il 18 luglio 1914, giusto un secolo fa, e dove aveva mosso i primi passi iscrivendosi, ancora bambino, all’Azione Cattolica. Qui, all’età di 12 anni, aveva anche iniziato a lavorare come aiuto meccanico in una piccola officina di biciclette. E ben presto era arrivato il tempo delle prime gare e delle prime vittorie in sella. Nel 1934 aveva vinto la quinta edizione della Coppa Bologna e l’anno seguente si era piazzato quarto alla Milano-San Remo: un inizio più che promettente per un ventenne. Infatti nel 1936, ingaggiato dalla Legnano, vince il Giro d’Italia. Arriva la popolarità, presto segnata dal dolore per la morte del fratello minore Giulio, vittima di un incidente in una gara di dilettanti. L’anno seguente, il 1937, lo vede ancora conquistare il Giro d’Italia. I giornali gli dedicano pagine, anche se non mancano le velenose frecciate di chi non gli perdona di avere dedicato la vittoria «al Papa e alla Chiesa anziché al Duce». Per il carattere apparentemente scontroso e per una sua tipica espressione («Gli è tutto da rifare!»), è soprannominato «Ginettaccio».
Dopo la seconda vittoria al Giro d’Italia, diventa capitano della Nazionale per il Tour de France in calendario l’anno seguente. Vuole vincerlo, ma deve risparmiare energie, per cui rinuncia al Giro d’Italia. E finalmente, nel 1938, arriva la strepitosa vittoria parigina che l’incorona asso mondiale del ciclismo. È ancora primo alla Milano-San Remo del 1939 e del 1940, ma il Giro d’Italia del 1940 lo vince Fausto Coppi, gregario nella Legnano, dove lui stesso l’aveva voluto. La corsa s’era conclusa il 9 giugno di quell’anno fatale, alla vigilia della nostra entrata in guerra a fianco della Germania di Hitler.
Sotto il naso dei tedeschi
Gli anni della guerra conobbero il suo coraggio e altruismo. Nei mesi che seguirono l’8 settembre 1943 e l’occupazione dell’Italia da parte delle truppe del Terzo Reich, Bartali si mobilitò per salvare la vita di quasi mille ebrei. Macinava chilometri sotto il naso dei tedeschi, con la scusa che era in allenamento, trasportando, tra Firenze e varie località dove avevano trovato rifugio gli ebrei braccati, i documenti falsi che li avrebbero salvati, messi a punto dalla Curia fiorentina diretta dall’arcivescovo Elia Angelo Dalla Costa. Nascondeva le carte nei tubi e sotto il sellino della bicicletta. Quelle giornate sono ora rievocate nel concerto Gli eroi semplici, del musicista e cantautore Piero Nissim. Tre sono gli eroi. Accanto a Bartali, i due che collaborarono strettamente con lui nella coraggiosa impresa: il padre di Nissim, Giorgio, e don Arturo Paoli che oggi, all’età di 102 anni, vive in Brasile dove combatte, nelle favelas, povertà e prostituzione minorile. Le vite salvate da Gino Bartali in quei mesi gli varranno la Medaglia d’Oro al merito civile assegnata alla sua memoria nel 2006 dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, e la nomina a “Giusto tra le Nazioni”, avvenuta il 23 settembre del 2013 allo Yad Vashem di Gerusalemme.
Ma l’attività di Bartali durante la guerra non si limitò a quella coraggiosa impresa. Ad esempio l’ebreo Giorgio Goldenberg, allora bambino, rimase nascosto per mesi, con tre suoi familiari, nello scantinato di casa Bartali, evitando così la deportazione. E 49 soldati inglesi, arresisi e rinchiusi in uno scantinato a Villa Selva (Firenze), furono fatti uscire da un Bartali in divisa fascista e consegnati a una formazione partigiana della zona. Ricercato dalla polizia fascista in seguito a quell’impresa, dovette nascondersi a Città di Castello, in casa di amici fidati. Tornò in sella all’indomani della Liberazione, pronto a confrontarsi nuovamente con Coppi, rientrato dalla prigionia in Germania. La prima sfida si svolse al Giro d’Italia del 1946, vinto da Bartali per la terza volta, mentre Coppi, ingaggiato dalla Bianchi, si piazzò al secondo posto con soli 47 secondi di distacco. L’anno seguente, Bartali vinse la Milano-San Remo ma perse il Giro d’Italia a favore di Coppi. Era alle porte l’impresa più entusiasmante di tutte: la vittoria al Tour de France del 1948, raccontata all’inizio.
«Dio, famiglia, amici»
Negli anni che seguirono, Bartali, che era anche terziario carmelitano, diventò il rappresentante dell’Italia cattolica e pacelliana del dopoguerra, fatta ancora di processioni e di santini, ma soprattutto di solidi principi morali. «Dio, famiglia, amici sono stati i cardini della mia vita», dirà. Contrapponendosi anche in questo a Coppi, che finiva sui rotocalchi per via della “Dama Bianca” (l’amante Giulia Occhini), identificato invece come simbolo di un’Italia in via di emancipazione dai valori tradizionali. Intanto la rivalità sportiva tra i due non conosce soste. Significativo il confronto al Giro d’Italia e al Tour de France del 1949, vinti entrambi da Coppi, con Ginettaccio al secondo posto. I cinque anni di differenza giocavano a favore del più giovane Coppi. Si parlò molto di rivalità tra i due. Ma al Tour de France del 1952, sulla vetta del Galibier, fu scattata la mitica foto che ritrae entrambi mentre si scambiano la borraccia. Ancora due anni, e Bartali si ritirerà dopo aver vinto, a 39 anni suonati, il Giro della Toscana. Da quel momento si dedicò alla famiglia: la moglie Adriana Bani, sposata nel 1940 a Firenze, e i tre figli Andrea, Luigi e Bianca. Ormai mito del ciclismo mondiale, si batté contro il doping e la corruzione, che hanno segnato il declino di questo sport. Morì il 5 maggio 2000, per un attacco cardiaco, nella casa di Firenze, situata nella piazza dedicata al cardinale Dalla Costa che, con il suo prezioso aiuto, aveva salvato centinaia di ebrei. «Per mio padre », ha scritto il figlio Andrea nel libro Gino Bartali mio papà (edizioni Limina), «il rispetto per i Dieci Comandamenti valeva più di qualunque vittoria. Considerava Gesù il più grande dei rivoluzionari. Così come trovava straordinario l’ammonimento divino: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Era convinto che se tutti avessero seguito questo insegnamento, non ci sarebbero più state guerre e il mondo vivrebbe in pace».
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