15.12.2024

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Goldoni: il teatro borghese
31 Gennaio 2014

Goldoni: il teatro borghese

 

 

Nacque 300 anni fa a Venezia. Scrisse più di 150 opere, dominate dal ritmo indaffarato di una borghesia agnostica e godereccia. Aderì alla Massoneria e soffriva di depressione. Quasi il sintomo di quella società empia e nevrotica che i giacobini stavano costruendo.


 

 

Negli ultimi decenni, qualsiasi teatro italiano ha avuto “in cartellone” certi autori e certe opere dominanti: anche se le mode ideologiche si succedono (Brecht, per esempio, è scomparso dai palcoscenici) e i classici si affermano: Sofocle, Shakespeare e Pirandello soprattutto. Nell’avvicendarsi delle fasi, il teatro di Carlo Goldoni rappresenta una costante: le pieces goldoniane vanno sempre in scena. Come mai? Forse perché sono in qualche modo l’autobiografia morale della media borghesia, cioè dell’unico ceto che era solito recarsi a teatro la sera. Aperto il sipario, Goldoni ci avvolge in un riso euforico, raramente lasciandoci soffermare a riflettere poiché la rappresentazione è incalzante, le battute si susseguono ai col-pi di scena, gli attori vanno e vengono da dietro le quinte: è il ritmo indaffarato della borghesia. Quello goldoniano è teatro borghese non tanto per i soggetti o gli ambiti quanto per la tonalità, cioè per l’immagine dell’uomo (e della donna) affaccendati al centro della ragnatela delle “relazioni” dei rapporti sociali. A nient’altro è concesso spazio, che non siano gli affari da sbrigare, proprio perché niente altro è importante fuorché salvare le apparenze.
La comicità di Goldoni ha origine nella drammatizzazione cittadina della vita: nasce dalle situazioni, dagli equivoci, dal linguaggio dei soggetti implicati nel grande affresco della società veneziana del Settecento. Benché attenuati dentro i guanti profumati delle regole della buona creanza, le ambiguità e i doppi sensi sono sempre quelli della borghesia, e riguardano dunque due soli temi: sesso e denaro, dissimulato il primo e dissimulato il secondo. Tutto essen-do ricoperto dal velo leggero del sentimentalismo, le passioni vengono attenuate dal calcolo, mentre aleggia un vago senso di malinconia allegra, tipico delle società in decadenza.

Una vita a teatro

 

Carlo Goldoni nacque a Venezia nel 1707 da famiglia benestante; fu uno dei tanti giuristi mancati che trovarono successo nelle belle lettere: dopo una giovinezza spensierata e godereccia, all’età di quarantun’anni entrava a far parte, come poeta drammatico, nella compagnia di Girolamo Medebach, rappresentando la sua prima commedia: La donna di garbo.
Convinto che a teatro fosse necessaria una “riforma”, esposta nel Teatro Comico nel 1751, volle restituire dignità letteraria al testo, contrapponendo all’improvvisazione della commedia dell’arte lo studio dei costumi e dei caratteri. Scrisse moltissimo (oltre 150 lavori), prendendo spunto dalla vita quotidiana della società veneziana; rinnovò così le trame drammaturgiche, facendo spesso uso di un linguaggio “dialettale” che dava corpo all’aspetto realistico delle situazioni create dai suoi personaggi, nei quali distillava frammenti dei propri piccoli o grandi vizi, con indulgenza: donnaioli impenitenti, golosi della cioccolata, giocatori d’azzardo, scialacquatori.
Numerosi furono i suoi capolavori per la recitazione, come Il servitore di due padroni (1745) dove la maschera di Arlecchino assume il ruolo rinnovato di suggeritore di accomodamenti seriosi e di compromessi umoristici: è il gioco di società alla moda. Sorprendente fu la famosa scommessa delle “sedici commedie nuove”, da comporre d’im-peto in un solo anno: tra queste, la scena pittoresca de La bottega del caffè (1750). Seguono a breve distanza: La locandiera (1753) col suo ritratto in corpo minore della donna svenevole e raziocinante, Mirandolina; I rusteghi (1760), elegia della vecchia maniera di fare dei ricchi della vecchia generazione, burberi, calcolatori e generosi se necessario; Le smanie per la villeggiatura (1761), a ironizzare l’idea fissa che avrebbe contagiato la società intera, le vacanze; una ventata di buonumore sta invece negli affreschi popolani da Le baruffe chiozzotte a Sior Todero brontolon (1762); ma è l’ideologia imborghesita del decoro, dell’onore e della reputazione a dominare gli ultimi scritti: Il ventaglio (1765), il Burbero benefico (in francese, 1771) e la tarda autobiografia dei Mémoires.

Un massone depresso

 

Quando nel 1762 si trasferì a Parigi a dirigere la Comédie Italienne, divenendo insegnante di italiano delle figlie di Luigi XV, Goldoni ignorava che il suo viaggio sarebbe stato di sola andata: abbandonava per sempre l’atmosfera delle calli e dei campielli della Laguna per la capitale della Francia, dove morì assai vecchio trentun anni dopo (1793). Pur avendo conosciuto Rousseau ed essendo stato apprezzato persino da Voltaire, l’autore veneziano non si rese conto che la confusione intorno a lui non era il trambusto per un nuovo cambio di scena bensì lo sfrenarsi della Rivoluzione.
Nella sua individualità, Goldoni anticipava un nuovo “tipo umano”; avendo smitizzato in sé e negli altri qualunque desiderio religioso o grandioso o anche solo umanamente eroico (De Sanctis ammise che aveva “proscritto dall’arte il fantastico, il gigantesco”), ci diede svariate annotazioni su qualità fasulle, in una folta galleria di ritratti di uomini “moderni”: operosi in quanto monetizzatori di tutto, vittime dell’ovvietà purché condivisa dal senso comune, edonisti al punto di diventare ottusi, sordi a qualunque ideale che non fosse il tornaconto. Goldoni soffrì anche di una malattia molto moderna e ingrata: la depressione, probabile contrappeso della sua tenace superficialità verso le cose ultime dello spirito. E, purtroppo per lui, aderì anche a un’istituzione molto moderna e ingrata: la loggia massonica, definita ne Le donne curiose come luogo di “zente onesta, de buon cor, amorosa, che in t’una occasione sappi soccorrer un amigo”; questa scelta poté maturare in lui a causa del vuoto e della trascuratezza con cui aveva lasciato deperire la propria anima. In questo, fu la perfetta incarnazione dell’individuo illuminista. Sotto l’apparente bonomia delle commedie, dunque, si celava il panico di una società inquieta, empia, nevrotica (il teatro “femminile” di Goldoni offre indicazioni per capire, per esempio, che cosa sia la bulimia-anoressia oggi imperversante…). Dietro la risata, la smorfia; sotto la maschera, il vuoto; dentro il salotto, una solitudine terrificante: forse anche per questi motivi occulti, tanto ampio è il successo recente delle opere goldoniane. Quando finalmente passerà di moda, vorrà dire che starà per finire l’epoca dell’indifferenza fatta spettacolo.

IL TIMONE – N.64 – ANNO IX – Giugno 2007 pag. 48-49

 

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