Moriva vent’anni fa l’autore di romanzi di successo come “Il nostro agente all’Avana”, “Il console onorario”, “Il potere e la gloria”. Dalla vita turbolenta, eterodosso nella dottrina, Greene ci ha però regalato pagine indimenticabili sulla grandezza del sacerdozio cattolico
Simpatia per gli indifendibili
Greene sosteneva che il ruolo del narratore fosse «suscitare nel lettore la simpatia verso quei personaggi che ufficialmente non hanno diritto alla simpatia»: proseguiva, in questo, sulla medesima linea dell’illustre predecessore G.K. Chesterton che nel saggio The Defendant (1901) difese “il bello del brutto”, ricordando cioè in che cosa consistesse la condizione umana, nei suoi risvolti imbarazzanti; era il gesto controcorrente dei grandi artisti che nel primo Novecento si convertirono al cattolicesimo: nel corso degli anni Venti, furono il filosofo Carl Schmitt, i poeti T.S. Eliot e Giuseppe Ungaretti (che proprio a causa di ciò non ricevette il premio Nobel) e di quegli scrittori “rimasti” cattolici, come J.R.R. Tolkien, Karl Kraus e Hugo von Hofmannsthal, Georges Bernanos. A quel tempo, Greene aveva vent’anni e iniziava ad affidare alla scrittura l’espressione di sé: vennero così alla luce le sue opere, dal tratto inconfondibile ed estremo, la calligrafia di uno che preferiva «avere del sangue sulle mani piuttosto che l’acqua come Ponzio Pilato ». Ecco uscire in serie romanzi lunghi e brevi come La roccia di Brighton (1938), Il potere e la gloria (1940), La quinta colonna (1943), Il nocciolo della questione (1948), Il terzo uomo (1950), l’appassionante e adulterino Fine di una storia (1951), Un americano tranquillo (1955), Il nostro agente all’Avana (1958) sino a Il fattore umano (1978) ispirato alla vicenda realmente accaduta al suo amico Kim Philby, una spia doppiogiochista assoldata dal Kgb, che nel 1963 fuggì in Unione sovietica. La maestria di Greene si esplicava sia nei grandi intrecci sia nei “divertimenti”, ossia nei racconti dal ritmo incalzante da thriller, attenti soprattutto alla trama e all’ambiente: «sono un intrattenitore puro. E per intrattenere bisogna raccontare storie» affermò.
L’ultima parola
«Chi scriverà la mia biografia non avrà un compito facile, perché verrà spesso depistato» diceva di sé Greene: in effetti, egli fu via via un convertito, un adultero, una spia dei servizi inglesi, un consumatore di droga, l’amico del presidente panamense Torrijos e il frequentatore di Fidel Castro, e anche un “bambino impaurito”. Ma ebbe il coraggio di dire a papa Paolo VI di essersi sentito tradito dalla Chiesa cattolica che aveva messo all’indice un suo romanzo su indicazione del cardinal Pizzardo.
Si trattava dell’opera Il potere e la gloria (1940), giudicata negativamente dal Sant’Uffizio. Papa Paolo VI invece l’ammirava e in udienza lo tranquillizzò: «Mr. Greene, certe parti del suo romanzo non possono non offendere alcuni cattolici, ma lei non dovrebbe attribuire alcuna importanza a questo» (Estratto N.1, da 30 GIORNI, 2002). Si trattava del racconto, drammatico, della storia di un prete “indegno” ma incapace di svestirsi della vocazione e dei brandelli lucenti della dignità sacerdotale: Greene aveva soggiornato in Messico, come cronista del Times, assistendo alle feroci persecuzioni anticattoliche del presidente Calles (tra il 1924 e il ’28), che applicavano l’ideologia socialistaradical- massonica, ossia, una politica anticlericale che proibiva qualunque forma di espressione religiosa in pubblico, pena la morte. La persecuzione portò alla rivolta dei Cristeros (1926-1929).
Ma il punto teologico più profondo è l’ultimo discorso che il prete “santo e peccatore” pronuncia davanti al plotone di esecuzione, quando dice al luogotenente, un rivoluzionario ateo: «…questa è un’altra differenza tra noi. È inutile che lavoriate per il vostro scopo, a meno che non siate un uomo buono voi stesso. E non ci saranno sempre uomini buoni nel vostro partito. E allora si avrà di nuovo tutta la vecchia fame, le violenze, l’arricchirsi ad ogni costo. Ma il fatto ch’io sia un codardo, e tutto il resto, non ha molta importanza. Posso mettere Dio lo stesso nella bocca di un uomo, e posso dargli il perdono di Dio. Anche se ogni prete della chiesa fosse come me, non ci sarebbe nessuna differenza sotto questo aspetto».
A mio parere, la chiave di volta che sorregge l’intera cattedrale di parole dei libri di Greene sta in un racconto giovanile, nascosto in una raccolta di cose minori, intitolato L’ultima parola (1923). Si immagina un mondo in cui regnano pace e sicurezza globali, e il cristianesimo è ormai stato cancellato quasi del tutto: resta, segregato in un appartamento di periferia di una metropoli, ultimo superstite, un vecchio. Ha perso quasi tutta la memoria del proprio passato, a partire da un certo punto in poi («l’incidente…»), ma conserva il calco delle parole giuste, e le pronuncia agli esterrefatti suoi contemporanei, che lo conducono al cospetto del Generale. Una volta là, saprà pronunciare l’ultima parola, Corpus Domini nostri…, suscitando nei suoi uccisori un dubbio atroce: «era possibile che fosse vero ciò in cui quell’uomo credeva?». Ma la storia si chiude senza rimedio su quella scena estrema.
IL TIMONE N. 102 – ANNO XIII – Aprile 2011 – pag. 48 – 49
Riceverai direttamente a casa tua il Timone
Se desideri leggere Il Timone dal tuo PC, da tablet o da smartphone
© Copyright 2017 – I diritti delle immagini e dei testi sono riservati. È espressamente vietata la loro riproduzione con qualsiasi mezzo e l’adattamento totale o parziale.
Realizzazione siti web e Web Marketing: Netycom Srl