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11.12.2024

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Guerra ideologica e civile
31 Gennaio 2014

Guerra ideologica e civile

 

 


Gli aspetti principali di un conflitto che divide gli italiani fra partigiani, non solo e non tutti comunisti, fascisti e la grande maggioranza immune dalle ideologie


 

Il 25 luglio del 1943 il regime fascista viene liquidato – e in parte si autoliquida – per consentire al Re Vittorio Emanuele III e al generale Pietro Badoglio di giungere a un armistizio con gli anglo-americani. Lo “sganciamento” dall’alleato tedesco fra il 25 luglio e l’8 settembre sarà tuttavia “gestito” da Badoglio in maniera avventata e catastrofica. In quei drammatici giorni si sfascia non solo l’esercito, ma anche lo Stato nazionale. Tutti fuggono dalle loro responsabilità, tranne le autorità sociali di sempre: i gendarmi, i vescovi e i parroci, le organizzazioni religiose, le famiglie. Essi, quando non dovranno sacrificarsi in prima persona – come il carabiniere beato Salvo d’Acquisto –, faranno l’impossibile per aiutare, come poco dopo con gli ebrei, i malcapitati soldati italiani e gli ex prigionieri alleati a sottrarsi alle retate tedesche.

Due Italie
La duplice occupazione taglia l’Italia in due: al sud, sotto l’egida angloamericana, tornano a governare i partiti antifascisti, presto egemonizzati dal “partito nuovo” del leader comunista Palmiro Togliatti. Le regioni centro-settentrionali cadono invece sotto il tallone dell’occupante tedesco, inferocito per il tradimento subito, che gli ha imposto di distogliere preziose truppe di élite dal critico fronte russo. Al nord, e per qualche mese anche al centro, su pressione di Adolf Hitler si forma un nuovo Stato, la Repubblica Sociale Italiana, guidata da Benito Mussolini. I ceti dirigenti italiani, intuendo gli esiti futuri, si mostreranno assai tiepidi verso il governo neo-fascista, che si troverà sostenuto dai militanti più irriducibili, ma anche da uno stuolo di galantuomini, che aderiranno per senso dell’onore e di responsabilità. Grazie alla funzione di cuscinetto esercitata dalla Repubblica, pur fatalmente menomata nelle sue prerogative e partecipe delle peggiori scelte – per esempio antisemitiche, sebbene con molte eccezioni – dell’occupante nazionalsocialista, il desiderio di rivalsa di quest’ultimo sarà almeno contenuto, l’Italia non sarà trattata come la Polonia, la vita sociale potrà svolgersi in un relativo ordine, preziose risorse economiche e artistiche del Paese saranno risparmiate. Tuttavia, quello che domina innegabilmente nel Paese occupato è quell’atteggiamento attendista, quella “zona grigia”, di cui ha parlato, con grande scandalo a suo tempo, il maggiore storico del fascismo, Renzo de Felice.
Nel drammatico scenario di degrado e di demoralizzazione dell’autunno del 1943 tuttavia matura in molti il desiderio di reagire e, quindi, l’esigenza di schierarsi. Mai come allora, però, fu arduo capire dove si trovava l’onore della nazione. Vi è chi, magari dopo anni di dura guerra, invece di tornarsene a casa, sceglie di rimpatriare o di attraversare il fronte per entrare nell’esercito repubblicano, ricostituito dal generale Rodolfo Graziani, o nelle milizie fasciste.
Altri, invece, vedono la rinascita del Paese nella liberazione dell’Italia dai nazionalsocialisti e dal fascismo e decideranno di arruolarsi in ciò che restava dell’esercito regio o di combattere nelle formazioni partigiane.

Una guerra civile
Il primo nucleo – e il grosso – della Resistenza partigiana si forma proprio dai brandelli dell’esercito che all’indomani dell’8 settembre riescono a sottrarsi alla cattura fuggendo sulle montagne. A loro si affiancano presto le formazioni dei partiti: i radicalsocialisti di Giustizia e Libertà, gruppi cattolici come le Fiamme Verdi, reparti monarchici e, infine, il gruppo più numeroso, le Brigate Garibaldi, espressione militare del partito comunista. Nelle campagne e sui monti la guerriglia partigiana si diffonde a macchia d’olio a misura che il fronte si avvicina al nord e in alcuni casi i ribelli riescono a liberare per breve tempo alcune limitate aree del Paese, soprattutto in Emilia e in Piemonte.
In uno scenario che assume nitidamente i tratti di una guerra civile fra opposte – ancorché non del tutto dissimili – ideologie, qualcuno, i comunisti, decide di cogliere l’occasione per trasformare la lotta di liberazione in guerra rivoluzionaria, allo scopo di rovesciare i poteri costituiti e per costruire quell’“Italia rossa” che per molti decenni è stata il sogno proibito della sinistra estrema. L’attentato dinamitardo del 23 marzo 1944 in via Rasella, a Roma, funge da evento-simbolo dell’inizio di questo tragico percorso. Mentre Togliatti, vice-presidente del secondo governo Badoglio, accetta la monarchia e si atteggia a “moderato”, nelle città del nord i Gruppi di azione patriottica (GAP) e le Squadre di azione patriottica (SAP) attuano una catena interminabile di attentati terroristici e di assassini di dirigenti e di quadri fascisti. A questa ondata di terrore il regime repubblicano, superata la sorpresa e il disgusto iniziali per l’attacco fratricida, risponderà con un’ondata di rappresaglie di pari violenza: retate, fucilazioni, carcerazioni, torture sempre più numerose e frequenti avvieranno una gigantesca spirale di violenza di giorno in giorno più irrefrenabile e brutale.
La reazione alle molestie delle bande partigiane e agli atti di terrorismo delle formazioni di guerriglia rosse si fa più aspra a mano a mano che il conflitto volge al peggio per l’Asse. Agli orrori della guerra civile, si aggiungono le stragi di civili perpetrati dalla Wehrmacht e dalle SS lungo le vie di ritirata verso nord, che contribuiranno ad approfondire quel solco di rancore e di odio che lacererà durevolmente il Paese.
Ma l’odio civile è proprio ciò di cui il progetto di guerra rivoluzionaria si nutriva, nel suo sforzo di trasformare il risentimento antitedesco e antifascista in odio di parte e di classe che “preparasse” una radicale riforma politica del Paese.
Nel dopoguerra si ricorderanno solo gli eccidi tedeschi e fascisti mentre cadranno nell’oblio i bombardamenti alleati, condotti anche ben oltre l’8 settembre, e gli orrori, imputabili a entrambe le parti, della guerra civile. Ma, soprattutto, si oscurerà del tutto il colossale bagno di sangue – che solo ora, con gli studi di Giampaolo Pansa, inizia ad arrivare al grande pubblico nella sua enorme tragicità – in cui negli anni dal 1945 al 1948 – quindi a ostilità cessate – i “tribunali del popolo” e le “volanti rosse” comunisti immergono ampie zone del Paese, facendo decine di migliaia di vittime.
E non solo fra uomini e donne già fascisti – chi non lo era stato nel Ventennio? e quanti “afascisti” avevano servito la Repubblica di Mussolini per il bene dell’Italia? –, ma anche fra i concorrenti – la sinistra fascista delle formazioni repubblicane sconfitte – e i “nemici di classe”: gli agrari, gl’imprenditori, i notabili, i professionisti, gl’insegnanti, cioè tutte quelle autorità spontanee, per lo più moderate e cattoliche, che “dovevano” essere sottratte alla guida del Paese.

La guerra fratricida e i bombardamenti “alleati”
Sulla resistenza anti-tedesca e anti-fascista è stata costruita una spessa e tenace mitologia.
È vero: la nuova Italia nasce in gran parte dal sacrificio di molti nell’intento di riconquistare all’Italia la dignità di popolo libero. Ma vi è anche chi, con finalità analoga se non identica, ha compiuto scelte diametralmente opposte e, alla lunga, non meno costose. Senza cadere nel relativismo, a scontro ormai chiuso e con il senno di poi si può capire quale fosse allora la scelta da fare. Ma non si possono nascondere le conseguenze meno felici della scelta che ha prevalso e che non sono state tutte benefiche per la fibra morale del nostro popolo. Né si può negare che le libertà repubblicane non sono soltanto frutto del sangue partigiano – circa 40mila combattenti caduti –, ma anche del sangue versato da migliaia di soldati americani, inglesi, francesi, italiani – 42mila caduti –, canadesi, polacchi, sudafricani, nordafricani: senza l’Ottava Armata nessuno avrebbe scacciato i tedeschi dall’Italia. E germinano altresì dal sacrificio oscuro delle migliaia di innocenti vittime delle bombe e degli strazi del conflitto civile: tutti soggetti ai quali della “democrazia popolare” nella quale il partito comunista voleva far piombare l’Italia importava assai poco.

L’uso politico della Resistenza
Il paradigma antifascista e resistenziale, veicolato al pubblico in maniera sempre più invasiva dopo l’ingresso al potere dei socialisti nel 1963, diverrà da allora il grimaldello politico usato dai comunisti per emarginare sempre più le “destre”, in una operazione cinica e spregiudicata che raggiungerà l’apice negli anni del terrorismo rosso e nero, al tempo dei governi di “solidarietà nazionale” della fine degli anni 1970. Dopo il 1989, in seguito alle vicende che porteranno a una nuova configurazione della politica italiana, il paradigma e il mito sono rimasti parte integrante, da un lato, dei moduli culturali di autolegittimazione dello Stato e, dall’altra, del patrimonio ideale di ciò che rimane della sinistra e del radicalismo liberale e cattolico, ma non hanno più avuto efficacia propulsiva strategica.
Questo soprattutto perché – senza dimenticare i contributi pionieristici e di buona fattura di uomini più o meno di destra come Giorgio Pisanò, Piero Buscaroli, Giovanni Guareschi – la revisione storiografica intrapresa da studiosi non sospetti di fascismo, né in odore di “destra”, come Romolo Gobbi, Piero Paoletti, Giampaolo Pansa, Claudio Pavone, Ugo Finetti, Sergio Cotta, ha ormai demolito la leggenda, peraltro non inedita, di “un popolo oppresso” che, manzonianamente, “repente si desta, intende l’orecchio, solleva la testa” e impugna le armi a un sol uomo per liberarsi dal tiranno e dal crudele straniero a prezzo di fiumi di lacrime e di sangue. Al contrario, la nuova storiografia ha ricondotto la vicenda resistenziale nei suoi giusti binari, dipingendola come un moto del tutto legittimo e auspicabile, ma di cui sono protagoniste minoranze ideologizzate e politicizzate. Così la Resistenza si manifesta a ridosso e a margine dell’iniziativa bellica degli Alleati, che il popolo, soprattutto i contadini, in fondo non ama, che, pur provocandolo, non riesce a infastidire più di tanto l’esercito occupante e che agli Alleati costa più del contributo che ne ricevono. Inoltre, altro e non secondario aspetto, l’immagine rivela anche che il moto è innervato e deviato da una forza non meno totalitaria e sanguinaria del nazionalsocialismo, che opera in maniera divisiva e non pacificatoria perché coltiva obiettivi estranei alle radici del Paese, in un cinico disegno eversivo che non ha le mani del tutto pulite dal sangue fraterno e che pertanto, visto che nessuno finora ha fatto alcun mea culpa, continua tuttora a dividere gli italiani.

“ERRORI E ORRORI” NEL MINISTERO

 

L’unica vera riconciliazione nazionale passa inevitabilmente per la ricostituzione dell’identità patria costruita in base a una memoria finalmente condivisa. Epperò la memoria storica prima di potere essere condivisa va posseduta. Al ministero per i Beni e le Attività Culturali la cosa pare invece essere un optional. Riportano Paolo Simoncelli su Avvenire del 26 maggio e Dino Messina sul Corriere della Sera del 27 di come il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi abbia potuto accorgersi solo il 9 maggio, quando gli è cioè stato permesso di leggere il documento, del fatto che alcuni funzionari della Direzione per i Beni culturali e paesaggistici del Friuli Venezia Giulia, tale dottoressa M.C. Cavalieri e l’architetto Roberto Di Paola, direttore regionale del Ministero, abbiano copiato paro paro la voce Wikipedia relativa all’eccidio della malga Porzûs nello stendere l’atto che dichiara il luogo «bene d’interesse culturale» preludio al divenire «monumento nazionale» per sperato e auspicato decreto della Presidenza della Repubblica (come da tempo chiedono i reduci combattenti d’ispirazione cattolica a fronte dell’eccidio di armati cattolici e azionisti della Brigata Osoppo compiuto in quel luogo dai partigiani comunisti della Brigata Garibaldi agli ordini del famigerato Mario Toffanin e con l’avallo del PCI di Udine, nel febbraio 1945). E che, così facendo, detti funzionari abbiano scelto di premiare quel luogo di martirio esattamente per le motivazioni sbagliate, quelle care da sempre cioè ai comunisti, i quali sul tema da decenni rifilano una menzogna dietro l’altra. Nel documento del Ministero si legge persino la parola “giustificazione” per gli atti criminali della banda Toffanin. Pare allora che, colpito, il ministro Sandro Bondi abbia “prontamente” deciso di affidare la cosa a uno storico… (M.R.)

 

 

 

Dossier: Resistenza: la guerra civile

 

IL TIMONE N. 95 – ANNO X II – Luglio/Agosto 2010 – pag. 36 – 38

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