Incompreso dai suoi contemporanei, fu riscoperto da Heidegger nel cuore del ’900. Dotato di una sensibilità fuori del comune, la sua esistenza culminò nella follia. Genio paragonabile a Leopardi o a Wagner, conquistò l’ammirazione di un grande filosofo cattolico come Romano Guardini
Tra Settecento e Ottocento, ci fu un poeta tedesco che visse quasi come un veggente, immerso nella percezione che l’amata epoca della Grecia antica sarebbe presto tornata e che per l’umanità intera, a partire dalla Germania, sarebbe risorta l’epoca degli dèi fuggiti e degli eroi: si chiamava Friedrich Hölderlin, ed era svevo.
In una simile prospettiva, quel tempo solcato da due devastanti Rivoluzioni (industriale e francese) apparve ai suoi occhi trasfigurato perché veniva guardato “da dentro” e osservato per ciò che era sul punto di generare, cioè per il destino che stava per partorire: il profilo mostruoso di un ambiente dominato dalle macchine e dai sistemi, incomprensibile, inaccettabile soprattutto per l’uomo semplice e per il poeta i quali sono, spesso, disarmati. Così, abbagliato dalla visione abissale, Hölderlin scrisse meravigliose “odi” e “inni” ed “elegie” di straziante bellezza: canto l’acheo Achille e il filosofo Empedocle e l’amata Diotima (pseudonimo ellenizzante di Susette Gontard, andata sposa a un banchiere svizzero), ammirò Napoleone (un peccato di gioventù di tanti altri artisti di allora…), ballò attorno all’albero Giacobino della Libertà scandalizzando i suoi compagni di collegio (lo Stift teologico di Tubinga) e infine rifiutò la carriera di pastore evangelico che la madre e la zia avevano scelto per lui. Finì per fare il precettore privato in casa di ricchi borghesi di una nazione non ancora del tutto “moderna”, subendo su di sé la ferita di una giovinezza solcata da delusioni, illusioni, e dall’incapacità di diventare pienamente uomo.
Tutta la vocazione di Hölderlin si incentrò perciò sull’ispirazione lirica: se si scorre un libro che ne raccolga a sufficienza (consigliata l’antologia Poesie scelte. Testo tedesco a fronte; Feltrinelli, 2010; pp.300 € 10), si vedrà che i titoli stessi dei componimenti conducono il lettore in lande affascinanti, parlano di tempi, sensazioni e nostalgie che entusiasmerebbero qualunque cuore umano che non si sia inaridito. Da “Il cerchio della vita” a “Paese natale (Heimat)”, da “Fantasia della sera” a “Ritorno a casa”, da “Pane e vino” a “Stoccarda”, da “L’arcipelago” a “Il Reno”: sembra che la musa Mnemosyne abbia abbondato nei doni, così che la civiltà europea avesse finalmente il suo cantore assoluto. I contemporanei però non compresero la grandezza di Hölderlin: bisognò aspettare la metà del Novecento, quando il filosofo dell’esistenzialismo Heidegger si chinò sui versi del poeta svevo come se fossero dei geroglifici del destino dell’Occidente; da allora, la fortuna postuma di Hölderlin non conosce pause.
L’armonia assoluta
Infatti, fiorisce da queste pagine scritte più di duecento anni fa la fragranza di una quieta gioia, di contemplazioni solenni della realtà naturale, di alte meditazioni sul destino, di turbamenti e sconforti. Basti pensare che lo stile hoelderliniano non è classificabile nella categoria del Classico né in quella del Romantico; siamo al cospetto di un monumento unico. Tuttavia, la vita del poeta si concluse tristemente: superati da poco i 35 anni, si manifestarono nel suo animo segni di squilibrio e di follia, tanto che l’autore fu affidato alle cure di un falegname (non esistendo ospedali psichiatrici) di Stoccarda, nella torre della cui casa Hölderlin trascorse i trentasette anni “finali” della propria esistenza. Lasciando un romanzo (“Iperione o l’eremita in Grecia”) e un’opera omnia incompleta. Annotando di tanto in tanto poesie sulle stagioni, che rilucono si una strana inquietante dolcezza poiché aspirano a “raggiungere il Padre Etere”.
Che cosa era accaduto? Che era stato condotto, quasi per mano, dalla propria filosofia verso la follia, perché aveva gettato lo sguardo nell’abisso della realtà senza riuscire a legare il proprio cuore a ciò che è più grande persino della realtà. In questo suo poetare sull’orlo dell’infinito, sempre sul punto di cadere nel baratro, Hölderlin fu paragonabile soltanto a Leopardi e a Wordswoth o al musicista Beethoven o al filosofo Hegel (questi ultimi, guarda caso suoi connazionali ed esattamente suoi coetanei!); con simili artisti titanici quali capofila, il pensiero europeo si spinse oltre il punto di non ritorno della condizione umana sulla terra: a partire dalle conquiste filosofiche di Socrate e Platone, vennero esplorati i territori dell’immensità disancorandosi da qualunque speranza, slacciandosi dalle radici della fiducia e della carità.
Incominciava allora l’epoca postmoderna, quella nella quale l’io di ogni persona si percepisce radicalmente solo nell’universo, dopo aver reciso qualunque legame con tutto poiché crede che qualunque legame sia un vincolo, e invece è la Grazia di Dio; oggi, tale epoca di separazioni non è ancora terminata. A suo tempo, il falegname Zimmer (che lo ospitò dal 1807 alla morte, nel 1843) disse con la veridica ingenuità dei semplici che Hölderlin era «un uomo che ha perduto il cervello per seguire il cuore». E, anche se non aveva mai letto il brano che qui sotto riporto, aveva intuito chiaramente quale fosse il dramma hoelderliniano:
«Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei; questo è il cielo per l’uomo… Essere uno con tutto ciò che vive! Con queste parole la virtù depone la sua austera corazza, lo spirito umano lo scettro e tutti i pensieri si disperdono innanzi all’immagine del mondo eternamente uno e la ferrea fatalità rinuncia al suo potere e la morte scompare dalla società delle creature e l’indissolubilità e l’eterna giovinezza rendono felice e bello il mondo: un dio è l’uomo quando sogna, un mendicante quando riflette» (da “Iperione”).
La lettura di Romano Guardini
Tra l’altro, chi volesse avventurarsi nei territori alti e silvestri di questa poetica, può prendere come guida il pensatore italo-tedesco Romano Guardini, che nel suo libro intitolato “Hölderlin e il paesaggio” (Morcelliana, 2006, pp. 113 € 10) sostiene di aver compreso quale sia «l’essenza della poesia di Hölderlin: in essa parla il mondo stesso… sembra quasi che sia l’esistenza stessa a parlare» (discorso tenuto nell’Allgäu nell’estate del 1944).
Così, il candore e la tristezza, l’entusiasmo dell’indifeso Hölderlin li possiamo capire solo adesso, due secoli dopo: allora, furono l’oscura percezione di qualcosa di epocale che stava per accadere. Il lirico tedesco soffriva e cantava: come poteva immaginare che pochissimi anni dopo la sua morte il pensiero umano sarebbe precipitato nel Naturalismo (che ritiene l’uomo “un animale tra gli animali, una cosa tra le cose”)? Come poteva sapere che la tanto amata lingua tedesca sarebbe servita a Marx, Nietzsche e Freud per sviluppare una filosofia per la quale tutto ha origini meschine, e la violenza domina dappertutto e l’universo non ha senso, e la vita individuale è senza destino? L’umanità oggi precipita nell’abisso perché crede a idee bugiarde: oscuramente, Hölderlin sentì sanguinare questa ferita in anticipo.
RICORDA
«Il caro suolo della patria mi dà gioia e dolore. Io sono ora ogni
mattina sulle alture dell’istmo di Corinto e, come l’ape tra i fiori, la mia anima vola spesso qui e là tra i mari, che a destra e a sinistra rinfrescano i piedi dei miei monti infuocati. Soprattutto uno dei due golfi avrebbe dovuto rallegrarmi, se io fossi nato un migliaio d’anni prima». (dal romanzo “Iperione”, 1797).
IL TIMONE N. 116 – ANNO XIV – Settembre/Ottobre 2012 – pag. 48 – 49
Riceverai direttamente a casa tua il Timone
Se desideri leggere Il Timone dal tuo PC, da tablet o da smartphone
© Copyright 2017 – I diritti delle immagini e dei testi sono riservati. È espressamente vietata la loro riproduzione con qualsiasi mezzo e l’adattamento totale o parziale.
Realizzazione siti web e Web Marketing: Netycom Srl