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14.12.2024

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I Benedettini, per esempio
2 Dicembre 2014

I Benedettini, per esempio

I BENEDETTINI, PER ESEMPIO

«Cercare Dio»: impegnandosi nella cosa essenziale della vita, i monaci hanno anche insegnato a migliorare la natura, trattandola come dono di Dio, in cui scoprire la mano del Creatore. Come nella osservazione delle api. Una lezione per gli uomini di oggi

Il 12 settembre 2008, a Parigi, presso il Collège des Bernardins, Benedetto XVI cercò di riassumere con queste parole il cuore dello spirito benedettino: «In base alla storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura.
Ma come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni  avevano? Come hanno vissuto? Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile».
I monaci dunque bonificavano paludi, piantavano olio e viti, inventavano vini, cordiali, birre, formaggi e strumenti tecnologici (mulini, orologi meccanici, e così via); copiavano manoscritti antichi, e leggevano le Scritture… facevano tutto, e sempre per cercare Dio.

I due libri di Dio
Era loro chiaro, in questo senso, che Dio ha voluto che noi lo incontrassimo ovunque: «Ovunque Tu sei!». Nel nostro cuore, ma anche nei cieli; nel nostro prossimo, e nella natura. In tutto ciò che di bello e di buono riflette la Bellezza e la Bontà di Dio. Perché l’esistenza, continuava Benedetto, non è «una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto.
Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla». Quale strada, quale via? I benedettini non avevano alcun dubbio: la strada indicata dalla parola di Dio, dalla sua Rivelazione. Dal libro contenente la Rivelazione stessa: la Bibbia. Per questo la studiavano, cantavano i salmi, la ricopiavano per passarla alle nuove generazioni.
Ma sapevano che i libri sono due: il libro della Rivelazione, la Bibbia, e il libro della natura, in cui Dio si rivela a tutti gli uomini. In cui Dio rivela che il Creato non è dio stesso, come per i pagani, ma da Dio deriva, e a Dio porta.
Tutta la teologia cristiana, e quella benedettina in particolare, è profondamente segnata da questa concezione, espressa così da sant’Agostino: «La bellezza della terra è come una voce muta che si leva dalla terra. Tu l’osservi, vedi la sua bellezza, la sua fecondità, le sue risorse; vedi come si riproduce un seme facendo germogliare il più delle volte una cosa diversa da quella che era stata seminata. Osservi tutto questo e con la tua riflessione quasi ti metti a interrogarla… Pieno di stupore continui la ricerca e scrutando a fondo scopri una grande potenza, una grande bellezza e uno stupefacente vigore.
Non potendo avere in sé né da sé questo vigore, subito ti vien da pensare che, se non se l’è potuto dare da sé, gliel’ha dato lui, il Creatore. In tal modo ciò che hai scoperto nella creatura è la voce della sua confessione che ti porta a lodare Dio» (S. Agostino, Enarr. in Ps 144,13).
Sempre sant’Agostino:
«Altri, per trovare Dio, leggono un libro. È un gran libro la stessa bellezza del creato: guarda, considera, leggi il mondo superiore e quello inferiore. Dio non ha tracciato con l’inchiostro lettere per mezzo delle quali tu lo potessi conoscere. Davanti ai tuoi occhi ha posto ciò ch’egli ha creato… Gridano verso di te il cielo e la terra: “Io sono opera di Dio”» (Sermones, 68, V, 6).

All’origine della scienza moderna
Anche la scienza moderna, alle sue origini, che tanto devono alla mentalità benedettina, sarà questa capacità di scorgere la mano di Dio nelle sue creature. Non solo per il monaco Benedetto Castelli, padre dell’idraulica, o per il monaco Gregor Mendel, padre della genetica – secondo il quale «le forze della natura agiscono secondo una segreta armonia che è compito dell’uomo scoprire per il bene dell’uomo stesso e la gloria del Creatore» – ma anche per tantissimi scienziati laici.
Non a caso Galileo Galilei, figlio della cultura cristiana e cattolico sino alla sua morte, riproponeva l’idea patristica dei due libri, entrambi scritti dallo stesso Autore. Infatti, nella lettera a Maria Cristina di Lorena (1615), Natura e Scrittura sono presentate dal grande pisano come due «libri» che «procedono dallo stesso Verbo divino».
Ma torniamo ai nostri, pazienti creatori delle prime aziende agricole “moderne” dotate di magazzini, frantoi, officine, sorte laddove prima vi erano boschi e paludi. Tra le tante loro attività, vi era l’apicoltura. Dalle api ricavavano il miele, la cera per la chiesa e per i loro scriptoria. Nelle api, però, vedevano non solo creature di cui servirsi, ma anche da ammirare, perché anch’esse portatrici in qualche modo del Logos divino.
Il cristianesimo, ereditando anche il meglio della tradizione greca, è all’origine del pensiero scientifico moderno perché desacralizza la natura, rispetto alla “Natura-Dio” dei pagani, ma anche perché la ri-sacralizza in altro modo, osservandola come capolavoro “parlante” di un Dio trascendente che è Parola, Ragione, Amore. Osserviamo dunque, con l’occhio del monaco e del naturalista, le celle delle api: la loro forma, l’esagono, è quella che garantisce il minor ingombro di spazio e di volume; la maggior capacità di immagazzinamento; il minor impegno di energia e materiale costruttivo e infine la maggiore solidità della costruzione, che con pochi grammi di cera garantisce il contenimento di molti chili di miele. Che “intelligenti” le api! Intelligenti non da se stesse, né per caso, ma perché figlie anch’esse dell’Intelligenza creatrice! Così la pensavano i monaci.

La vera sacralità della natura
E questo sguardo umile permetteva loro da una parte di vedere più lontano (il Creatore dietro le creature), dall’altra di assumere verso le creature un atteggiamento rispettoso:
nella natura ci sono delle leggi, un ordine, una intelligenza, di cui l’uomo è spettatore, ammiratore, intelligente indagatore.
Ma la natura non è nostra: è stata affidata all’uomo perché la custodisca, la penetri, la utilizzi, sempre con quella cura che si ha verso un dono, che proviene dal più insigne dei Donatori. Cosa può insegnarci lo sguardo dei monaci sulla natura, oggi? A sfuggire sia la mentalità ecologista, che ha profonde radici pagane ed anti-umane, riducendo l’uomo a “cancro del pianeta”, sia ad evitare l’ubris, la superbia che trasforma l’uomo in manipolatore che, messa da parte la contemplazione del Creato, si comporta con esso da padrone assoluto. I monaci ci insegnano sia ad evitare una mentalità magica e panteista, che divinizza la natura, eliminando Dio e abbassando l’uomo al di sotto di essa (come nelle religioni pagane, in cui i sacrifici di esseri umani a delle altre creature, ad esempio il dio-sole azteco, erano il segno più evidente di una incomprensione del Creato), sia una mentalità scientista, che crede di poter fare delle leggi naturali, del concetto stesso di natura, ciò che vuole: creando armi di distruzione di massa, manipolando la vita, sostituendo la fecondazione naturale con quella artificiale, l’utero materno con l’utero artificiale, violentando la natura sessuata di ogni uomo con l’ideologia del gender, clonando bestie e animali.
Scriveva a tal riguardo il grande biochimico Erwin Chargaff: «Pretendo come minimo che le scienze naturali non snaturino la natura, non disumanizzino l’uomo». E ancora: «La disinvolta manomissione dei caratteri genetici dell’uomo, un po’ di sale qui, un po’ di pepe là, e poi forse un pizzico di sostanza cancerogena, di certo avrebbe riempito di orrore i grandi biologi del passato.
Ma forse mi sbaglio e sono l’unico cui ripugna scrutare nella cucina del buon Dio e, più che mai, sputare nei suoi intingoli.
Solo piccoli enigmi possono essere risolti… ma la vita e la morte bisogna lasciarle stare». â–

Il Timone – Dicembre 2014

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