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13.12.2024

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I cattolici e la politica
31 Gennaio 2014

I cattolici e la politica

 

 

 

 

I cittadini europei sono chiamati alle urne per il rinnovo del Parlamento. Un appuntamento che solleva domande fondamentali: che cosa significa la politica per un cattolico? Può esistere una vera democrazia fondata sul relativismo culturale? Con quali criteri votare?

 

Esiste una concezione totalitaria della vita politica e in particolare dello Stato. Un’idea secondo la quale l’umanità trova il suo compimento vero perché si crea lo Stato giusto, in qualsiasi modo si qualifichi (di destra, di sinistra, e così via). L’idea è che lo Stato è tutto ed è – in quanto realizza questo potere – “uno Stato etico”, come diceva Gentile. Lo Stato ha una sua ideologia, una sua morale e per questo ha le sue scuole, le sue strutture culturali, e coloro che vogliono far parte di questo Stato debbono professare l’ideologia dello Stato. Chi decide di non partecipare all’ideologia dello Stato, è fuori, è un dissidente.
La Chiesa negli ultimi cento anni della sua storia ha avuto la preoccupazione fondamentale di contrapporsi a questa concezione, di dire che lo Stato non è l’assoluto, che esiste una priorità della persona e che lo Stato è al servizio della società. La dottrina sociale della Chiesa – almeno dalla Rerum novarum fino alla Centesimus annus – ha fatto una battaglia ampia, vera e appassionata contro questo totalitarismo.
La politica oggi tende a mettere in moto e a raccogliere esigenze di partecipazione, le più ampie possibili, alla vita e alla gestione della società: c’è un fenomeno di partecipazione alla vita sociale e politica che si può riassumere nel termine democrazia.
Tutto ciò avviene in un contesto di rilevante pluralismo culturale. Esistono nella vita sociale esperienze diverse, e concezioni della vita, della persona, della famiglia, delle istituzioni diverse. Qual è la tentazione? È pensare che la vita sociale e le istituzioni si fondino sul relativismo culturale e quindi sul relativismo etico: come dire che una società è tanto. più rispettosa delle diversità delle posizioni, quanto più circola l’idea che non c’è una verità, che tutte le posizioni sono sostanzialmente equivalenti, e che quindi i valori etici, cioè i criteri di comportamento che sempre hanno fatto riferimento a una verità, sono anch’essi assolutamente equivalenti. La società è tanto più democratica quanto più nessuno gioca in questo contesto la pretesa di una verità, e quindi la pretesa di una legge morale valida per tutti, di criteri di riferimento validi per tutti. La società è tanto più forte, quanto più – per esempio sul tema della vita – non si fa una scelta determinante: si lascia convivere l’idea che la vita incomincia subito all’atto del concepimento e finisce all’atto della morte e non si può manipolarne l’inizio e la fine, con l’idea per cui la vita comincia tre settimane dopo oppure è un coagulo più o meno casuale di cellule, o addirittura un oggetto di carattere bio-fisiologico che può essere sottoposto a ricerche che non si fermano di fronte a niente.
In questa idea di società democratica non c’è legge morale, non ci sono criteri valutativi. È la società della televisione, è la società della maggioranza. È la società che fa diventare criteri di riferimento i comportamenti sociali più diffusi, che fa diventare veri e legali i provvedimenti che sono stati votati a maggioranza. Per cui una legge sostanzialmente immorale come quella dell’aborto diventerebbe i valida e morale per tutti perché è stata votata a maggioranza.
Sulla politica di oggi stende la sua ombra una posizione che non è meno grave dell’ideologia del secolo scorso, una ideologia sostanzialmente relativista che ha il culto della democrazia come una procedura: quello che è stato votato a maggioranza è valido.
Nel 1981, in quello straordinario documento che è la Dives in misericordia, – che dovrebbero leggere non solo i cattolici ma tutti gli uomini politici Giovanni Paolo Il scrive che “il pericolo che incombe sulla società di oggi non è quello dell’olocausto nucleare, ma della perdita della libertà di coscienza delle persone, delle famiglie, dei popoli, delle nazioni, ottenuta attraverso l’uso senza scrupoli dei mezzi della comunicazione sociale” (n. 11).
Oggi, dire la parola “democrazia” in un contesto che oscilla dalla ideologia del “sentito dire” della televisione alla ideologia della maggioranza, significa dire una cosa estremamente debole ed equivoca, dove la maggioranza equivale a valore in sé; mentre la maggioranza ha valore in quanto tende a regolare la vita sociale, ma non fa diventare vera e valida una posizione culturale. Oggi non ci sono più le grandi ideologie totalitarie con i colori delle camicie e delle bandiere, o con quella violenza ideologica per cui la gente si è massacrata nelle piazze, nelle scuole e nelle università; ma c’è questa ideologia non meno pervasiva, per cui se dici “io credo in questo e credo che questa sia la verità” sei sostanzialmente nemico della democrazia.
La vita della società ha come soggetti reali non questo piattume senza differenze, coagulato da quest’idea relativistica sul piano teorico e sul piano etico. La società è l’incontro dei diversi. È il luogo dove esistono esperienze di vita, di cultura, concezioni dell’uomo; la cultura intesa nel senso sostanziale e fondamentale insegnato da Giovanni Paolo Il, cioè l’impegno dell’uomo col suo destino. Non si può impegnarsi col proprio destino senza arrivare a un’idea di verità proclamata come tale: può non essere adeguata, può essere un’approssimazione, una profezia (ogni cultura è una profezia della cultura vera).
La società è fatta dal dialogo di identità diverse. Per dialogare non bisogna mettere fra parentesi la propria identità, perché ciò contribuisce alla confusione, e nella confusione domina chi ha più potere. Un potere magari surrettizio, quello dei mezzi della comunicazione sociale, che non si verifica mai, che non si vota mai, che non è sottoposto a verifica, perché è un potere autonomo, autosufficiente.
Allora, si contribuisce alla politica giocando fino in fondo la propria identità.
La politica è l’arte del compromesso, ma non del compromesso ideale: del compromesso pratico. E tanto più si è radicali nel compromesso pratico, quanto più l’identità si gioca a tutto campo. Ci sono delle battaglie sociali e politiche che la Chiesa indica ai suoi figli, e che non possono essere disattese: le battaglie sul valore della persona. Innanzi tutto la persona intesa come vita, perché la persona è una vita fisica: esiste la persona perché esiste un’anima unita a un corpo, quindi non può esserci una partecipazione intensamente cristiana alla vita politica, se non è innanzi tutto determinante la battaglia per la vita e la sua sacralità. Il rispetto assoluto della vita implica il dovere di obiettare e di ostacolare norme legislative o disposizioni che siano anche soltanto una riduzione minimale del rispetto assoluto che si deve alla vita, dal suo concepimento fino alla morte.
La seconda battaglia è quella relativa alla verità e alla libertà della persona, quindi ai diritti fondamentali: la libertà religiosa, la libertà di coscienza, la libertà della famiglia, la libertà di aggregazione sociale, la libertà di cultura, di educazione, i principi fondamentali di solidarietà, di sussidiarietà, una concezione del rapporto vita/realtà statale e istituzioni in cui le istituzioni non siano realtà che si impongono alla vita sociale, ma che servono il bene comune.
È dall’appartenenza ecclesiale che nasce una cultura politica, e le voci di questa battaglia politica le dà la Chiesa: il radicale servizio alla vita, alla persona e ai suoi diritti fondamentali, il servizio a una società ricca e articolata che non può essere dominata dalle strutture istituzionali, ma dev’essere servita dalle strutture istituzionali. Questo a me pare un cammino di autentica laicità.

 

 

 

 

IL TIMONE – N. 34 – ANNO VI – Giugno 2004 – pag. 18 – 19
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