L’epurazione della cultura dai cristiani ha un precedente significativo con Giuliano l’Apostata, che tentò di restaurare il paganesimo a Roma.
La risposta di Gregorio di Nazianzio: la cultura è un bene di tutti.
Gli autori cristiani, sia quelli di lingua latina (Aug., De Civ. Dei, XVIII, 52,2; Rufin., H.E. X, 33), sia quelli di lingua greca (Philost., H.E. VII, 4; Socr., H.E., III, 12, 7; Sozomeno, IV, 18, 2/3; Theod., H.E., VII, 8, 1/2), ricordano come manifestazione della persecuzione anticristiana di Giuliano (l’imperatore che, dopo Costantino, cercò di restaurare il paganesimo a Roma) il suo divieto ai cristiani di partecipare alla cultura classica, sia come docenti, che come discenti, e la sua volontà di emarginarli in questo modo dalla vita della polis: «An ipse non est Ecclesiam persecutus, – si domanda Agostino – qui Christianos liberales litteras docere ac discere vetuit?» («Forse non ha perseguitato la Chiesa colui che ha vietato ai cristiani di insegnare e di imparare le arti liberali?»).
I moderni sono divisi tra quelli che accettano l’impostazione anticristiana del divieto di Giuliano e lo valutano positivamente in nome della convinzione di Giuliano dell’unità tra fede e cultura; quelli che, pure convinti dell’impostazione anticristiana, lo ritengono una manifestazione delle tendenze teocratiche di Giuliano; quelli che negano addirittura che il divieto avesse un’intenzione anticristiana e ritengono che mirasse solo ad una riorganizzazione della burocrazia.
Sull’intenzione anticristiana del divieto credo decisiva la testimonianza dell’ultimo grande storico pagano di lingua latina, Ammiano Marcellino, ben noto per la sua ammirazione per Giuliano, che in due riprese nella sua Storia XXII (10, 7 e in XXV, 4, 20) ricorda come inclemens il divieto ai Cristiani di docere (insegnare): nel primo passo, sotto il 363 d.C., dopo aver ricordato favorevolmente le disposizioni legislative di Giuliano, osserva: «Illud autem erat inclemens – e da coprire con un perenne silenzio – quod arcebat docere magistros, rhetoricos et grammaticos, ritus Christiani cultores » («Egli tuttavia era inclemente poiché vietava di insegnare ai maestri, retorici e grammatici cristiani»); nel secondo, relativo alla visione conclusiva delle virtù e dei vizi di Giuliano, dopo aver parlato delle sue innovazioni legislative, dice che esse furono non molesta (non fastidiose) salvo poche, fra cui annovera appunto il divieto di docere ai cristiani “se non fossero passati al culto dei numi”.
Sull’intenzione persecutoria del suo imperatore Ammiano non ha dubbi e questo dovrebbe bastare; le incertezze dei moderni derivano invece dal testo della legge, a noi conservata dal Codice Teodosiano del 17 giugno 362 (Cod. Th. XIII, 3,5), nella quale i cristiani non sono esplicitamente nominati. Nel testo si afferma infatti che i maestri devono essere valutati non solo per la loro facundia ma anche per la loro moralità (moribus) e devono avere la probatio in sede locale da un decretum curialium (una specie di concorso pubblico): il silenzio della legge sui Cristiani (che ricorda l’editto di Decio, che non nominava i Cristiani, ma intendeva colpire solo quelli, imponendo a tutti i cittadini dell’impero il sacrificio agli dei, come risulta dai libelli a noi giunti) è chiarito però dalla lettera 61 che Giuliano stesso inviò poco dopo per spiegare le sue intenzioni: «Omero, Esiodo, Demostene – dice Giuliano – Erodoto, Tucidide, Isocrate e Lisia, non ebbero gli dei maestri di ogni cultura? […] Io credo che sia strano che chi spiega le opere di questi autori neghi onore a gli dei che essi hanno onorati […] E poiché essi dalle opere di questi autori traggono lo stipendio e il sostentamento, confessano di essere avidi di guadagni immorali […] vadano dunque nelle comunità dei Galilei a spiegare Matteo e Luca» (trad. Caltabiano).
La spiegazione più ovvia del silenzio del testo legislativo, ampiamente illuminato per favorirne l’esecuzione dal testo esplicativo, va cercata (se non nella reticenza un po’ ipocrita che abbiamo notato nel testo di Decio) nell’epurazione del testo stesso ad opera degli editori del Codice Teodosiano: e questa è un’opinione oggi largamente diffusa.
Non c’è dubbio dunque che, almeno per i docenti, l’accusa che gli autori cristiani fanno a Giuliano sia ben fondata; essi parlano però anche di un divieto ai cristiani di discere (di istruirsi) e di questo non parlano né il testo legislativo né la lettera.
In effetti, che il divieto di Giuliano avesse un’estensione più ampia sembra risultare dalle invectivae scritte da Gregorio di Nazianzio (Or. IV e V) poco dopo la sua morte, che insiste sulla volontà dell’imperatore di vietare ai Cristiani la cultura classica e contesta che la letteratura e la lingua degli Elleni si identifichino con il paganesimo, sostenendo al contrario che esse sono un bene comune di tutti gli uomini.
Un’ulteriore conferma viene dalla Passio Artemii, già governatore d’Egitto: nella Passio, Giuliano stesso si duole delle accuse che Artemio, partendo dagli insegnamenti greci, ha lanciato contro la religione pagana e dice che non tollererà più che «l’empia stirpe dei Cristiani sia istruita nelle discipline greche». Un concetto analogo Giuliano esprime nell’Ep. 90, accusando un prete cristiano di avere armato, con gli studi filosofici e retorici appresi ad Atene, la sua «odiosa lingua» contro gli dei celesti.
È probabile pertanto che il divieto riguardasse veramente non solo il docere, ma anche il discere: esso nasceva dall’ideologia di Giuliano, per il quale il termine stesso di ellenismo aveva assunto un significato in prevalenza religioso (anche nel greco degli ebrei e del Nuovo Testamento Ellenes indica i pagani, ciò che mai avvenne per il concetto di Romani); neoplatonismo e oracoli caldaici avevano contribuito a far crescere in lui la certezza che la cultura greca fosse frutto di ispirazione divina e, per questo, sacra. Ma quando, nell’Ep. 61, egli accomuna sotto il segno della religione scrittori come Tucidide, come Lisia, Demostene, autori di chiara impronta «laica», Giuliano mostra di non aver capito niente, nel suo misticismo orientalizzante, della lucida razionalità della vera cultura greca, che certo fu aperta all’esigenza religiosa come ad una esigenza umana fondamentale, ma non diede origine ad una letteratura sacra. Rivendicando a tutti gli uomini, compresi i cristiani, il patrimonio comune della lingua della letteratura greca, Gregorio di Nazianzio si rivela, assai più di Giuliano, consapevole dei valori della cultura classica e predecessore di quei cristiani che, in Oriente e in Occidente, avrebbero salvato dalla distruzione quella stessa cultura.
RICORDA
«Ogni verità, da chiunque sia pronunciata, viene dallo Spirito Santo».
(S. Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I-II, q. 109, a. 1, ad 1).
BIBLIOGRAFIA
Stefania Saracino, La politica culturale dell’imperatore Giuliano, “Aevum”, LXXVI
(2002), pp. 123-141 (con ampia bibliografia).
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