La fecondità è prima di tutto una collaborazione umile, sincera, fiduciosa al piano di Dio sull’uomo e sul mondo. Come dimostrano alcune storie di ordinario affidamento alla Provvidenza, per implorare la grazia di un figlio che non arriva. La commovente vicenda dei coniugi Flusser.
Nel suo recente libro “Miracoli: quando la scienza si arrende”, Saverio Gaeta riporta ben tre casi che riguardano concepimento, gravidanza, parto. Quello di una donna messicana affetta da una grave sindrome che la rendeva geneticamente sterile e che invece avrà un bambino dopo una gestazione normale. Quello di una donna di Cagliari che partorirà alla ventitreesima settimana di gravidanza una bambina considerata un aborto e che, invece, non solo sopravviverà ma non avrà neppure una delle conseguenze tipiche dei grandi immaturi. E, infine, il caso di una signora che perde il liquido amniotico alla sedicesima settimana di gravidanza e che tuttavia continua nella gestazione senza complicazione alcuna fino al parto. Si tratta di tre eventi di fronte ai quali la scienza medica attuale, pur avanzata, ha ammesso di essere impotente a trovare una spiegazione plausibile e che proprio per questo sono stati scelti come miracoli atti a sostenere cause di beatificazione o di canonizzazione.
Dunque, anche mentre la scienza avanza e progredisce, il dito di Dio continua ad operare e a travalicare ogni barriera, inducendoci così a riflettere sui significati più profondi della fecondità. La quale non è certo solo il frutto spontaneo dell’incontro di un uomo e di una donna, e nemmeno il risultato di processi più elaborati, in cui la mano dell’uomo aiuta una natura meno provvida, ma è prima di tutto una collaborazione umile, sincera, fiduciosa al piano di Dio sull’uomo e sul mondo. Così, ogni bambino che vede la luce non è soltanto una gioia per i suoi genitori, ma è anche e soprattutto un nuovo essere chiamato a un destino di amore e di eternità. Per questo diventa importante che ogni aspirante genitore avverta questa responsabilità, capisca la grandezza di ciò che sta per compiere chiamando alla vita un figlio e metta il proprio corpo a disposizione, intuendo che si tratta di un gesto sacro nel quale entrano non solo i propri, legittimi umani desideri, ma la volontà di Dio.
Di tutto questo, forse, era più facile essere consapevoli quando la scienza non offriva le possibilità attuali e soltanto la preghiera apriva una via a chi, pur desiderandolo, non riusciva a diventare genitore. I progressi recenti, mentre possono aiutare molti a superare seri ostacoli alla procreazione, possono al contempo rivelarsi un pericolo se riducono, fino ad annullarlo, quel legame profondo che la fecondità deve mantenere, per essere davvero tale, con Dio che è l’unico, vero datore della vita. In questo campo, infatti, forse ancor più che altrove, è possibile vedere all’opera quel rischio di “autonomia” dell’uomo dal suo Creatore che sta alla base del peccato originale e che resta la più grande tentazione a cui tutti siamo esposti. Una scienza, che crediamo onnipotente, ci può illudere che non solo tutto sia possibile prescindendo da Dio ma anche che tutto sia lecito. Senza capire che la scienza stessa in realtà è alla fin fine dono del Signore, che ha dotato l’uomo di intelligenza e che lo illumina e lo sorregge, anche se spesso non ne è cosciente, nel cammino della ricerca.
Per questo è necessario, pur utilizzando tutte le risorse disponibili, mantenere una visione cristiana del problema della fecondità: quando due persone si sposano è addirittura necessario per la validità delle loro nozze che abbiano tra i loro intenti quello di avere dei bambini. Ma se, nei fatti, non li avranno per impedimenti naturali, ciò non renderà la loro unione meno importante, né dal punto umano né da quello spirituale. Non avere figli per dei credenti può essere certo un’esperienza dolorosa perché non permette loro di realizzare un giusto desiderio naturale, ma non deve mai trasformarsi in un dramma. E, questo, perché è sempre possibile scorgere in ogni avvenimento della vita un piano divino che ci riguarda e trasformare così una infecondità fisica in una più grande fecondità spirituale. Per questo, se appare giusto servirsi dei mezzi che la scienza ora mette a disposizione per aiutare la procreazione, questa scelta non è accettabile se diventa un accanimento che, pur di realizzare un proprio desiderio, sceglie forme che introducono gravi elementi di rischio e disordine morale. Un figlio non è un idolo da perseguire in ogni modo. È piuttosto un dono di Dio importante, bellissimo, ma che può essere sostituito da altri doni altrettanto portatori di gioia. Fare esperienza della infecondità fisica può così diventare per una coppia una via per approfondire il proprio legame con Dio, per scoprire nei fatti il valore di una croce che purifica e allarga gli orizzonti umani e spirituali. Una angustia che può portare a dilatare il cuore fino alla esperienza della adozione o della affiliazione o ad altre forme di paternità e maternità spirituali. Perché alla fine, ciò che conta davvero è imparare ad amare: è da qui che nasce la vita in tutte le sue possibili forme; in quella fisica, che appare la più semplice e naturale, ma anche in quella spirituale. Così, davvero infecondo non sarà chi per circostanze diverse non sarà diventato padre o madre, ma chi, per sua disgrazia, non avrà imparato ad uscire da se stesso per accogliere l’altro.
Ed è in questo contesto che, per riprendere gli esempi iniziali, può avvenire anche l’evento miracoloso di una procreazione che neppure la nostra scienza così avanzata può permettersi. Nella preghiera umile e tenace di una coppia che si affida a Dio e che al suo cuore di Padre offre il desiderio sincero di mettere il proprio amore e il proprio corpo al servizio del Suo Regno perché, se vuole, lo realizzi. Proprio come fecero – non dimenticherò mai il loro racconto – David Flusser, lo studioso ebreo osservante ma affascinato da Gesù e da sua madre Maria, e sua moglie. Essi si erano incontrati alla fine della seconda guerra mondiale, quando lei, reduce dai campi di concentramento nazisti, portava ancora sul suo corpo i segni degli atroci esperimenti di medici criminali e nel suo cuore il dolore per la perdita, sempre nei Campi, del primo marito e dei loro figli. Fiduciosi in Dio, i coniugi Flusser vollero ricominciare a credere nell’amore e nella vita. E quando si accorsero che i figli desiderati non arrivavano – i medici avevano escluso questa possibilità – con umiltà e fiducia grande fecero un gesto non certo comune per degli ebrei ma che esprimeva la loro profonda spiritualità: andarono in pellegrinaggio in un santuario austriaco, dove da secoli si recavano a pregare le donne sterili. Erano certi che Maria, anche lei ebrea, li avrebbe aiutati. E proprio per questo non furono delusi.
Dossier: Quando il figlio non arriva
IL TIMONE – N. 44 – ANNO VII – Giugno 2005 – pag. 44-45