Nel suo articolo «La Chiesa, l’Europa, la storia» (sul «Corsera» del 9 aprile 2005), Vittorio Messori richiamava le parole del laicissimo opinionista francese Pierre Manent: «Sono spiacente per i politici e gli intellettuali secolarizzati del Vecchio Continente, ma questo impressionante accorrere di masse, che nessuno ha convocato né organizzato, attorno alla salma di Giovanni Paolo II è la risposta più eloquente alla decisione grottesca e antistorica di rifiutare la menzione delle radici cristiane nella Costituzione europea». Ma proprio il Paese più laicista d’Europa (e, dunque, del mondo: la Francia) «alla notizia della morte del papa si è messo in lutto con spontaneità e con molta naturalezza, a cominciare dalle reti televisive». Tanto che i politici hanno dovuto adeguarsi e si sono viste le alte cariche dello stato in Notre Dame, assediata da una enorme folla «cattolica, cioè universale, in senso forte: tutti i sessi, le età, le classi, le condizioni».
Ha dovuto obtorto collo adeguarsi anche il premier spagnolo Zapatero, la cui ostilità verso tutto ciò che è cattolico (osservava Messori) ricorda quella delle sinistre iberiche, socialiste e anarchiche, degli anni Trenta, che anche per questo anticlericalismo persecutorio crearono le condizioni per l’alzamiento e la guerra civile. Insomma, pure Zapatero ha dovuto mostrarsi compunto, in San Pietro, capeggiando una delle oltre duecento delegazioni del mondo intero. Messori riportava anche le parole di Nicola Bux, autorevole teologo ecumenico: «Stiamo assistendo alla più esplicita, inequivocabile manifestazione del Primato Romano. Sia il popolo che i governanti, con questo loro accorrere, riconoscono la figura universale del Vescovo di Roma: la loro presenza mostra che il Papa è percepito come il punto di riferimento, senza paragone possibile, non solo della Chiesa cattolica ma di tutto il cristianesimo». In effetti, in certo ambiente “ecumenico” sono state vissute «con disagio se non fastidio» queste giornate. Eh, già: «dopo tanto sforzo per mostrare come il Primato del Successore di Pietro vada ridimensionato, demitizzato, facendo al massimo del Papa un primus inter pares, ecco che grandi e piccoli ne sentono a tal punto l’importanza e il fascino da dar luogo a una simile veglia funebre e a simili funerali», diceva Messori.
È vero: questo Papa ha raccolto una Chiesa ai minimi termini in quanto a prestigio ed ha fatto del papa il «Patriarca dell’Occidente », ponendolo ad autorità morale suprema del mondo. Starà al successore (e a noi) non disperdere questa eredità. Stalin chiedeva sarcasticamente quante divisioni avesse il Papa, ed oggi Putin sicuramente si morde le mani per aver dovuto essere, unico tra i grandi di questo mondo, assente al funerale più spettacolare della storia: il clero ortodosso non glielo avrebbe perdonato ed egli, presidente eletto, ha bisogno del suo appoggio. Anche la tradizionalmente antipapista Inghilterra ha rimandato le «nozze reali» per esserci. Tutti i media del pianeta erano presenti, e perfino i fanatici Talebani afghani hanno ritenuto di dover almeno mandare un messaggio. Ebrei, musulmani e buddisti sono venuti. Addirittura la comunista Cuba ha osservato tre giorni di lutto, e se il suo dittatore non si è presentato è per divieto dei medici.
Ma, per chi conosce la storia, la meraviglia più grande è stata lo spettacolo offerto dagli Usa. Gli Stati Uniti, «repubblica massonica» (per ammissione dell’insospettabile Batman, in uno dei suoi fumetti), hanno sempre guardato con sufficienza, se non con disprezzo, il papismo, tant’è che il suo establishment w.a.s.p. (la cui p. sta per protestant; il resto è white, bianco, e anglo-saxon) è quello che di fatto ancora comanda, sebbene ormai in minoranza numerica. Un famoso film muto di D. W. Griffith, Nascita di una nazione (un cult per cinefili) celebrava gli Usa mettendo nella locandina nientemeno che un cavaliere incappucciato del Ku Klux Klan. Il quale ancora oggi, quantunque fuorilegge, incita all’odio contro i neri, gli ebrei e i cattolici «papisti». Si è dovuto attendere la presidenza di Reagan perché tra la Santa Sede e gli Usa si instaurassero regolari rapporti diplomatici. Cioè, più di due secoli. Adesso, inginocchiati davanti al feretro del Papa c’erano non uno ma ben tre presidenti degli Stati Uniti. E sarebbero stati quattro o cinque se Reagan fosse ancora vivo e Carter non fosse troppo vecchio e malandato.
Tutti i potenti di questo mondo hanno fatto a gara per venire ai funerali del Papa, persino il premier iraniano, persino quello dello Zimbabwe, persino il “laicissimo” Chirac. Quest’ultimo, come già il suo predecessore Napoleone III, ha dovuto farlo, perché il suo Paese è «laico» solo di vertici, laddove il suo elettorato lo è molto meno. Viene in mente l’elogio funebre che il grande giornalista cattolico Louis Veuillot, direttore de L’Univers, fece nel 1875 per Gabriel Garcia Moreno, presidente della Repubblica dell’Ecuador assassinato nella cattedrale di Quito dai liberalmassoni. Moreno aveva portato a prosperità e potenza militare un Paese sottosviluppato, insidiato dai vicini e squassato da golpe e rivoluzioni.
L’aveva modernizzato con strade, ponti, scuole e creando l’osservatorio astronomico di Quito, ancora oggi uno dei più importanti al mondo. Aveva dimezzato le tasse e raddoppiato i salari, posto il bilancio in attivo e dato il voto alle donne e agli indios. Era stato l’unico a inviare un modesto indennizzo al beato Pio IX per risarcirlo in qualche modo della perdita dello Stato Pontificio. Ma aveva, nel preambolo della Costituzione, consacrato il suo Paese al Sacro Cuore. E i settari gliel’avevano giurata. Il Papa, commosso e addolorato, volle una sua statua nel Pio Istituto Latino-Americano di Roma.
Così scrisse di lui Veuillot: «Egli ha dato un esempio unico nel mondo e nei tempi in cui è vissuto; egli è stato il vanto del suo Paese; la sua morte un bene fors’anche più grande, in quanto per essa ha dimostrato a tutto il genere umano quali capi Dio può dargli ed a quali miserabili esso si affida nella sua follia».
Riguardiamo dunque la scena dei funerali di Giovanni Paolo II e ricordiamoci di queste parole.
IL TIMONE – N. 43 – ANNO VII – Maggio 2005 – pag. 20-21