L’importanza dello studio dei Padri della Chiesa nell’insegnamento di papa Benedetto XVI e della Congregazione per l’educazione cattolica
Papa Benedetto XVI ci ha ormai abituato all’importanza delle ricorrenze. In molti suoi documenti, il Santo Padre aiuta a ricordare come le date non siano mai frutto del caso, ma segnali della Provvidenza che invitano a meditare sulla storia, sul fatto che Cristo ne sia il Signore e che, nel trascorrere del tempo, si debbano cercare le intenzioni di Dio, la sua presenza e il suo disegno all’interno del drammatico confronto tra le forze del bene e quelle del male: questa è la storia, la cui importanza è grande perché in essa si decide la nostra salvezza e perché in essa le nazioni possono conoscere l’ordine e la pace o la violenza e le rivoluzioni.
All’interno della storia ve ne è una particolare, la storia della Chiesa.
Ad essa il Papa sta dedicando le catechesi durante le udienze del mercoledì dall’inizio del pontificato, quasi volesse ricordarci le radici da cui proveniamo, sulle quali è stata costruita la nostra storia personale di uomini occidentali nei quali il cristianesimo si è particolarmente sviluppato nei primi duemila anni di vita.
Così, dopo aver dedicato alle origini della Chiesa molte udienze sugli Apostoli e sui primi discepoli di Cristo, Benedetto XVI per circa un anno si è soffermato sui Padri della Chiesa, dal 2007 al 2008, presentando le figure dei Padri da san Clemente Romano (88-97) a sant’Agostino (354- 430). Poi ha continuato presentando le grandi figure medioevali, i Dottori della Scolastica, i santi moderni, prima di dedicare le ultime udienze alla centralità della preghiera riflettendo sulla bellezza dei Salmi.
Vorrei soffermarmi sui Padri della Chiesa, memore delle parole del beato Giovanni Paolo II scritte per il XVI centenario della morte di un grande padre della Chiesa, san Basilio: «della vita attinta dai suoi Padri la Chiesa ancora oggi vive; e sulle strutture poste dai suoi primi costruttori ancora oggi viene edificata, nella gioia e nella pena del suo cammino e del suo travaglio quotidiano» (Lettera apostolica Patres Ecclesiae, 2 gennaio 1980).
Mi servirò, oltre che delle suggestioni offerte dagli ultimi due Pontefici, anche di una Istruzione della Congregazione per l’educazione cattolica del 1989, molto ricca di contenuti spirituali e culturali, uno di quei documenti che, se non possono essere ascritti direttamente al Magistero della Chiesa, rimangono tuttavia preziose occasioni di formazione.
Chi sono i Padri?
Greci e latini, cresciuti cioè nelle Chiese d’Oriente e d’Occidente nei primi secoli della storia ecclesiastica, quando esse erano ancora unite nonostante avessero liturgie, culture e spiritualità diverse, i Padri della Chiesa sono l’esempio di come si può cattolicamente respirare con due polmoni, come credeva Giovanni Paolo II, ossia rimanere uniti nella diversità. Essi sono quegli scrittori cristiani che difesero e proposero la fede cattolica nei primi secoli davanti e spesso in polemica con il paganesimo e con la religione ebraica. Si distinsero in generale per quattro caratteristiche: l’ortodossia della dottrina, la santità della vita, l’approvazione da parte della Chiesa anche se non sempre espressa in modo ufficiale e il fatto di appartenere all’antichità, anche se su questo punto la delimitazione del tempo all’interno del quale inserire i Padri varia fra i diversi studiosi. Molti di essi sono stati riconosciuti dai Papi anche come Dottori della Chiesa, come per esempio i latini Ambrogio, Girolamo, Agostino e Gregorio Magno e i greci Atanasio, Basilio il Grande, Gregorio di Nazianzo e Giovanni Crisostomo. Altri, invece, hanno errato su alcuni punti della loro dottrina e quindi non possono essere considerati Padri della Chiesa, quantunque lo stesso Magistero si sia servito delle loro opere su tanti punti importanti. Una figura particolarmente cara a Benedetto XVI, come il beato card. John Henri Newman (1801- 1890), è arrivato addirittura a scrivere che «i Padri mi fecero cattolico» per spiegare la sua conversione dall’anglicanesimo, e questo nonostante, o forse proprio per questo, sia stato uno dei principali assertori dello sviluppo della dottrina cattolica, ma di uno sviluppo che spiega e completa i Padri senza soppiantarli.
Le analogie con l’epoca dei Padri
Pur essendoci molte evidenti diversità, la nostra epoca conosce alcune somiglianze con l’epoca dei Padri, tenendo conto che ordinariamente, anche se ci sono autorevoli opinioni discordi, si considera san Isidoro di Siviglia (morto nel 636) come l’ultimo Padre dell’Occidente e Giovanni Damasceno (morto intorno al 750) come l’ultimo d’Oriente. Anche oggi come allora un mondo sta finendo e la Chiesa deve trovare il modo di comunicare il Vangelo della salvezza svolgendo un’opera di discernimento fra ciò che può essere mantenuto e ciò che deve essere rifiutato della cultura attuale.
I Padri sono riconosciuti dal Magistero della Chiesa anzitutto come testimoni della Tradizione, una «Tradizione viva, che dagli inizi del cristianesimo continua attraverso i secoli fino ai nostri giorni» e «che progredisce e si sviluppa con l’avanzare della storia», e che attribuisce loro una posizione inconfondibile nella storia della Chiesa. I Padri «hanno insegnato alla Chiesa ciò che hanno imparato nella Chiesa», scriveva sant’Agostino. Essi, come ricordava il servo di Dio Paolo VI nel 1970, furono gli artefici della prima evangelizzazione dell’Europa, cioè si preoccuparono di studiare la fede – che avevano ricevuto dagli Apostoli e dalle prime generazioni cristiane – e di trasmetterla adattandola alle necessità degli uomini del loro tempo, appunto un’epoca di notevoli cambiamenti. Grazie a loro nacque la teologia, cioè la riflessione sulla Rivelazione, e così il cristianesimo verrà presentato a un numero crescente di popolazioni, cercando di trovare per ciascun popolo, ma direi anche per ciascun uomo, le parole più adatte.
«Il loro munus apologetico, esercitato con una consapevole sollecitudine pastorale per il bene spirituale dei fedeli, è stato un mezzo provvidenziale per far maturare l’intero corpo della Chiesa», scrive l’Istruzione della Congregazione per l’educazione cattolica. Infatti, i Padri svolsero anche un compito apologetico, cioè si trovarono di fronte alla necessità di polemizzare con gli intellettuali del loro tempo, o con i cristiani diventati eretici. Furono così in qualche modo costretti a studiare, ad approfondire, a trovare la parole più adatte per tentare di convincere: come disse sempre sant’Agostino, furono costretti dalle opposizioni a penetrare sempre più profondamente nei misteri della Fede e questo risultò provvidenziale.
Così come furono testimoni della Tradizione, i Padri considerarono la Sacra Scrittura come «oggetto di incondizionata venerazione, fondamento della fede, argomento costante della predicazione, alimento della pietà, anima della teologia». Delle Scritture scriveva così sant’Ireneo (130-202) nel suo Adversus haereses: «sono perfette, perché dettate dal Verbo di Dio e dal suo Spirito», e i quattro Vangeli sono «il fondamento e la colonna della nostra fede». Essi ci insegnano la logica dell’et et, tipica del realismo cristiano che rifiuta le ideologie e la dialettizzazione dei principi, per cui si usa contrapporre ciò che deve essere unito, anche se distinto: «La venerazione e la fedeltà dei Padri nei confronti dei Libri Sacri va di pari passo con la loro venerazione e fedeltà verso la Tradizione. Essi si considerano non padroni ma servitori delle Sacre Scritture, ricevendole dalla Chiesa, leggendole e commentandole nella Chiesa e per la Chiesa, secondo la regola della fede proposta ed illustrata dalla Tradizione ecclesiastica ed apostolica» (Istruzione della Congregazione per l’educazione cattolica, 28. 3). Ed è per questo che l’auspicato ritorno alla lettura della Sacra Scrittura anche da parte dei fedeli non deve mai separarsi dal ritorno alla Tradizione, attestata fra l’altro dai testi patristici, affinché possa portare i frutti sperati. Così, quando la Costituzione Dei Verbum dichiara che «la Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa» (n. 10), non ha fatto altro che confermare un antico principio teologico, praticato e professato dai Padri, che ha illuminato e diretto la loro intera attività esegetica e pastorale, e che certamente rimane valido anche per i teologi e per i pastori d’anime di oggi.
Per saperne di più…
IL TIMONE N. 109 – ANNO XIV – Gennaio 2012 – pag. 58 – 59
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