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14.12.2024

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I pagani & la Confessione
31 Gennaio 2014

I pagani & la Confessione

 

 

 

Le tracce dell’antica polemica antricristiana montata da alcuni autori pagani. Smentita dal celebre caso di Ambrogio, che obbliga Teodosio a pubblica riparazione: anche l’imperatore deve rendere conto a Dio delle sue azioni.
Dopo i fraintendimenti popolari dell’Eucaristia – che avevano dato origine nel I secolo alle accuse di infanticidio e di cannibalismo (i flagitia di cui parla Tacito), decisamente smentite da Plinio il Giovane, ma riprese a livello “colto” dall’orazione di Frontone contro i Cristiani all’epoca di Marco Aurelio – un altro equivoco, quello sul perdono facile di colpe gravissime, alimentò la polemica pagana contro i Cristiani dal II al IV secolo, partendo anch’esso dal fraintendimento di altri due sacramenti: il battesimo e la penitenza. Le prime tracce di questa polemica – che, a differenza di quella sull’Eucaristia, si sviluppò a livello intellettuale e non popolare – si ritrovano nel Discorso vero di Celso del 178, di cui Origene ci ha conservato ampi frammenti nel suo Contro Celso del 248. Tale polemica è collegata certamente con la conoscenza, sia pure approssimativa, della disciplina catecumenale da parte dei pagani, la cui sistemazione appare diffusa fra i Cristiani negli ultimi decenni del II secolo. La medesima polemica viene ripresa nell’ultimo quarto del III secolo da Porfirio, nel suo Contro i Cristiani, di cui Macario di Magnesia ci conserva alcuni frammenti nell’Apocritico degli inizi del V secolo, e ci giunge in modo diretto nei Cesari di Giuliano l’Apostata, del 362-363, collegata soprattutto con la conversione di Costantino che, invitato da Zeus a scegliersi un Dio, lo trova in Gesù, che predicava dicendo: «Chiunque sia corrotto, assassino, empio, si faccia coraggio: io lo renderò puro dopo averlo lavato nell’acqua e, se cadrà di nuovo nelle stesse colpe, lo renderò di nuovo puro, se si batterà il petto e sbatterà la testa».
Nello stesso periodo Giuliano tornava sull’argomento nel suo Contro i Galilei, conservato in frammenti nel Contro Giuliano di Cirillo di Alessandria: qui Giuliano cercava di dimostrare che la corruzione era caratteristica del Cristianesimo sin dalle origini, introducendo una variante ad un passo di Paolo (Prima Lettera ai Corinzi 6, 9-11) in cui si parla del regno di Dio chiuso ai fornicatori, agli idolatri, ai ladri, agli avari e si dice che «tali eravate anche alcuni di voi, ma siete stati lavati…». Giuliano cambia: «Non ignorate fratelli che tali eravate voi…». Le stesse accuse si ripresentano, collegate con la conversione di Costantino, in Zosimo, l’ultimo storico greco pagano del V secolo: egli arriva addirittura a collocare tale conversione non nel 312, al tempo di Ponte Milvio, ma parecchi anni più tardi, dopo l’uccisione del figlio Crispo e della moglie Fausta (II,29). Avendo Costantino chiesto ai sacerdoti pagani di purificarlo da tali delitti (Sozomeno, Hist. I,5,1 parla invece del neoplatonico Sopatro) ed avendone ricevuto un rifiuto, seppe da un Egiziano proveniente dalla Spagna (il vescovo Osio di Cordova) che il Cristianesimo avrebbe potuto liberarlo da ogni peccato e si convertì. L’adesione di Costantino al Cristianesimo (non il suo battesimo, che appartiene, com’è noto, alla fine della sua vita) risale certamente, come rivelano fonti pagane e cristiane contemporanee (fra cui i Panegirici imperiali e i documenti dello stesso Costantino), al 312: la falsificazione operata da Zosimo è solo il frutto di una polemica ideologica che ci porta, come abbiamo visto, a Giuliano.
In contrasto con le accuse che la polemica anticristiana alimentava, il rigore morale a cui i cristiani si impegnavano con la conversione era invece tale da colpire anche pagani onesti e senza pregiudizi: come Plinio il Giovane, che nella lettera a Traiano sui processi da lui condotti contro i Cristiani della Bitinia nel 112 ricorda che essi si impegnavano a non commettere furti, adulteri, rapine e a restituire il deposito loro affidato. Allo stesso modo, anche Galeno, medico di Marco Aurelio, parla con ammirazione dell’autocontrollo e dell’autodisciplina che i Cristiani si imponevano nel cibo e nelle bevande, della loro castità e del loro amore per la giustizia, atteggiamenti ritenuti degni di veri filosofi.
Duro e tutt’altro che facile era il cammino penitenziale imposto a chi peccava gravemente e voleva rientrare nella Chiesa: la penosa controversia dei lapsi – cioè coloro che avevano fatto apostasia, rinnegando la fede nella persecuzione di Decio – con la distinzione della gravità del peccato, maggiore per coloro che avevano effettivamente sacrificato, minore – ma sempre grave – per coloro che avevano comprato il libello (libellatici), rivela che, pur nella misericordia, il buonismo del perdono facile non era ammesso nel Cristianesimo dei primi secoli.
Il perdono facile non valeva nemmeno per gli imperatori: famoso è il caso di Teodosio e della penitenza a lui imposta da Ambrogio per la strage di Tessalonica del 390: siamo informati intorno a questi fatti sia dalla lettera inviata nello stesso 390 dal vescovo all’imperatore sia dal De Obitu Theodosii, il discorso tenuto nel 395 da Ambrogio davanti alla corte per la morte dell’imperatore. Nel 390, Ambrogio è ben consapevole del pericolo che corre: il delitto commesso da Teodosio, che aveva coinvolto nella punizione colpevoli e innocenti, non era la colpa di un privato, ma di un imperatore: «Ti scrivo questo – dice Ambrogio, dichiarando che non può accogliere in chiesa Teodosio – non per confonderti, ma perché tu tolga questo peccato dal tuo regno». Un caso simile era avvenuto in precedenza, quando Filippo l’Arabo, primo imperatore cristiano, secondo una notizia di Eusebio di Cesarea (Storia Ecclesiastica VI, 34), aveva confessato il suo peccato e si era messo umilmente fra i penitenti (sembra ad Antiochia, davanti al vescovo Babila) dopo aver organizzato come prefetto del Pretorio la rivolta militare che aveva ucciso il suo predecessore Gordiano III (244 d.C.). Allo stesso modo, anche nella vicenda di Teodosio la colpa non riguardava solo la morale cristiana, ma era tale anche per i pagani, i quali nel caso di Costantino avevano accusato – come si è visto – il Cristianesimo di un facile perdono, e toccava la gestione stessa del potere imperiale. La libertà di parola del vescovo diventa qui veramente il banco di prova di un potere non tirannico, il presidio ultimo della libertà di tutti. Il dovere di ricordare a chi detiene il potere supremo i limiti che ad esso impone la legge divina e naturale, quel dovere a cui Ambrogio stesso si era appellato in altri suoi interventi, si riflette nel motivo centrale del De Obitu Theodosii: il ritrovamento della croce e del potere incoronato e frenato, di cui sono simboli i chiodi della croce donati da Elena a Costantino come diadema e come freno. Nel De Obitu la penitenza di Teodosio diventa così motivo di lode per l’umiltà di un imperatore che, come il biblico David, aveva saputo riconoscere pubblicamente il suo peccato e sottomettersi a Dio. L’imperatore romanocristiano cessa di essere l’autocrate legibus solutus, ed accetta il limite a lui imposto dalla legge divina e naturale.

 

 

 

RICORDA

«Gesù ha avuto misericordia di noi non per allontanarci, ma per chiamarci a sé. E’ venuto mite e umile. Ha detto: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e io vi ristorerò”. Il Signore, dunque, guarisce senza eccezioni, senza riserva. A ragione, ha scelto discepoli che, interpreti del suo volere, raccogliessero e non tenessero lontano il popolo di Dio».
(Sant’Ambrogio, La penitenza, libro primo, 3).
BIBLIOGRAFIA
G. Urso, Purificazione e perdono: una polemica fra pagani e Cristiani, in CISA, 24, 1998, p. 249 sgg.
M. Sordi, I rapporti di Ambrogio con gli imperatori del suo tempo, in AA.VV. Nec timeo mori, Milano 1998, pp. 107 sgg.

 

IL TIMONE – N. 56 – ANNO VIII – Settembre/Ottobre 2006 – pag. 28 – 29

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