Ripubblicato il diario della ritirata di Russia scritto dal grande Eugenio Corti. Un’opera straordinaria, nella quale il dolore immenso per le tragedie della guerra non scade mai in disperazione.
Di che cosa è fatto il coraggio
Le pagine de I più non ritornano, scritte subito dopo la rovinosa ritirata del ’42-’43, furono nascoste in una buca nella terra del giardino di casa, a Besana Brianza, per timore delle perquisizioni. Subito dopo la fine della guerra, Corti le ricopiò aiutato da una sorella, sistemandole per la pubblicazione, che avvenne nel 1947 presso un editore non cattolico, Garzanti: il libretto riscosse un discreto successo, oltre al plauso critico nientemeno che di Benedetto Croce, maestro del pensiero laico liberale, il quale notò esserci nel testo il “non infrequente lampeggiare della bontà e della nobiltà umana”.
Dopo numerose ristampe, oggi il “Diario di ventotto giorni in una sacca sul fronte russo (inverno 1942-43)” ritorna in libreria nella collana Rizzoli-Libri dello Spirito Cristiano, quasi come un’offerta a noi che, nel XXI secolo, stiamo provando le incertezze della guerra incessante. Con quali occhi accogliamo adesso pagine così inquietanti? Mentre le rileggevo, infatti, ho provato un dolore maggiore rispetto alla prima volta: acuito dal diluvio di violenza che costituisce il notiziario del presente, il disagio è dovuto alla consapevolezza che tutta una generazione è tramontata, e uomini forti come Corti se ne trovano pochi.
Perché per aver scritta una cronaca come questa è necessario essere stati uomini saldi, e l’autore lo era già, benché ventunenne. «Ho visto cose tremende» ammise ad un certo punto l’autore, il quale è contemporaneamente il protagonista che vive gli eventi nar rati e l’io narrante che deve registrarli. Il lettore subisce perciò una tempesta di emozioni concomitanti: ansia, timore, disgusto, preoccupazione, pena, rabbia, attesa, fatica. Finita la lettura, si intuisce che cosa sia il coraggio. Certo non il furore, o disprezzo del pericolo, o l’invulnerabilità. I soldati che nel ’42’43 circondavano il Corti sottotenente e narratore-cronista non sono gli “arditi” sempre tesi al grande gesto eroico, in stile dannunziano. Furono invece la gran folla, inerme, degli italiani dispersi sulla neve inclemente della piana del Donetz, a morire di freddo. Cioè, la dimostrazione che il coraggio è fatto di una cosa semplice, pulsante, irrorata di sangue: è fatto di cuore.
Un’epica senza ideologia
Il testo de I più non ritornano appare in forma di appunti: a volte frasi fluenti, altre volte lacerti spezzati, sospesi sulla pagina: scritti col sangue rappreso, con mano ghiacciata, col cuore che batte per timore di una morte sempre incombente; in certi punti sentiamo gli spari, i boati delle katiusce, le grida orribili dei feriti.
È un libro che Apollonio definì “romanzo-poema-dramma-storia”, come dire: energia. Non sarà difficile scoprirvi l’eco lontanissima di omeriche iliadi rivissute nel Novecento; di catabasi e anabasi di eroi senza nome; di bolge dantesche in un terrestre inferno di guerra. La penna dell’autore è ora secca come un Tacito o un Machiavelli, ora sprofondata come un Juan de la Cruz che descriva la “notte oscura” dell’anima.
Arbusov, la piana della morte, il biancore accecante della neve: la temperatura è costante, a 20° sottozero. Unico riparo, le isbe occupate dai soldati in ritirata, con le uniformi incrostate addosso e dure come lamiera. Intanto i russi sparano e colpiscono. Il massacro si protrae per giorni: non si può fronteggiare così a lungo la morte, l’incertezza, la stanchezza bestiale. È qui un pregio del libro: è un’epica senza ideologia. «La mia maggior preoccupazione – disse Corti – fu di rispettare in tutto la verità: al punto di poter giurare sul contenuto non soltanto dell’insieme, ma di ogni singola frase».
Non una parola di troppo sulla viltà del milite italiano, sulla ferocia del russo, sulla durezza del tedesco. La voce narrante parla per l’abbondanza del cuore: in presa diretta. senza attenuanti, con obiettività. I ritratti degli amici sono essenziali; di loro non sappiamo quasi niente, ma ricordiamo tutto: il maggiore Mario Bellini, Zorzi, Valori, Candela. La preghiera è un colloquio con Dio, interrotto dalla temporanea disperazione, a sua volta vinta dalla certezza che l’amore di una madre che prega (anche se lontana mille miglia) sia qualcosa di reale.
Insomma, è un libro-tesoro: non basta leggerlo, occorre ereditario, perché offre una lettura del dolore ignota a gran parte del XX secolo. Scriveva Corti in una lettera dell’ottobre ’73 a G.B. Barresi: “Dio recupera la sofferenza degli uomini, soprattutto degli innocenti – crocifissi al pari di Cristo innocente – la quale sofferenza pertanto non va sprecata (dunque quei morti non sono morti per niente: ti rendi conto di quanto ciò sia importante?)”.
RICORDA
“Non era possibile – noi lo sentivamo – che cose enormi come quelle che stavamo vivendo dipendessero dall’arbitrio di pochi piccoli uomini. Erano castighi all’intera Umanità, quelli. Solo Dio può castigare l’Umanità. Cosi si spiega la guerra”.
(Eugenio Corti, I più non ritornano).
IL TIMONE – N. 35 – ANNO VI – Luglio/Agosto 2004 – pag. 54 – 55
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