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I ‘riciclati’ al potere? Dalla lotta armata al governo
31 Gennaio 2014

I ‘riciclati’ al potere? Dalla lotta armata al governo

 

Hanno avuto a che fare con la giustizia e vengono premiati con l’ingresso nelle istituzioni. Con tanto di assegno vitalizio. Ex terroristi rossi tra gli esperti della Consulta sulle tossicodipendenze. E delle vittime nessuno si ricorda più.

 

 

 


La chiamavano “l’amazzone del terrore”. Veneziana, 55 anni, Susanna Ronconi oggi lavora per il gruppo Abele di don Ciotti. Ma negli anni di piombo ha militato, fin dalla prima ora, nelle Brigate Rosse, per poi essere tra i fondatori di Prima Linea: unica donna nella storia della lotta armata a far parte di due gruppi terroristici diversi. Oggi consulente per Asl e Comuni, soprattutto in Toscana e Lombardia, poche settimane fa per lei c’è stato il grande salto: Paolo Ferrero, valdese, già militante di Democrazia proletaria poi entrato in Rifondazione comunista, dal 17 maggio 2006 ministro della Solidarietà sociale con delega sulle politiche antidroga, la nomina fra i 70 membri della Consulta nazionale sulle tossicodipendenze.
Così, il governo Prodi ha aggiunto un’altra perla alla collana dello “scurdammuce u’ passato”. Il primo scandalo l’aveva suscitato Sergio D’Elia, pure lui ex di Prima Linea, condannato a 25 anni per banda armata e omicidio, eletto deputato nelle liste della Rosa nel Pugno e nominato segretario d’aula alla Camera. Poi è stato il turno di Roberto Del Bello, una condanna per associazione a banda armata, scelto come braccio destro dal sottosegretario all’Interno Francesco Bonato di Rifondazione. Infine la Ronconi. Che si sarà anche dissociata dalle sanguinose imprese giovanili, ma vanta comunque un curriculum di tutto rispetto, difficile da archiviare.
Il padre ufficiale d’aviazione, la madre casalinga, la classica famiglia borghese, nel  1974, a soli 23 anni, Susanna si trasforma. La “timida ragazza perbene” sceglie la rivoluzione, e dopo aver rapinato una banca con Roberto Ognibene è nel commando che uccide a Padova, nella sede del Movimento Sociale Italiano, Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola: è il primo fatto di sangue attribuito alle Brigate Rosse. I due militanti di destra appartengono alla vasta schiera di vittime innocenti colpite a morte per odio ideologico, sacrificate a progetti politici utopisti e disumani: progetti che, in forme meno cruente, continuano a sopravvivere nella nostra società, alimentando ancora episodi di violenza. Si pensi all’omicidio di Marco Biagi, il 19 marzo 2002, eliminato solo perché fautore di un mercato del lavoro più flessibile e moderno, inaccettabile nella logica conservatrice e veteromarxista che ancora caratterizza alcune frange politiche (peraltro rappresentate al governo). E le vittime del terrorismo continuano a subire l’oltraggio dell’oblio: mentre i loro carnefici vengono riabilitati, di loro nessuno si ricorda più, a cominciare dalle istituzioni che, nel caso di giudici, poliziotti, docenti universitari, hanno fedelmente servito.
Nel 1999 Livia Turco (allora ministro della Solidarietà sociale, nel governo D’Alema) cercò di offrire alla Ronconi un posto da consulente nell’Osservatorio permanente per la verifica delle droghe e delle tossicodipendenze. Ma le polemiche che suscitò la costrinsero a rinunciare. All’ex terrorista quella consulenza è arrivata sette anni dopo, con il nuovo governo targato centrosinistra. E il ministro Ferrero ha messo subito le mani avanti: «Ha più competenze e titoli scientifici di altri componenti», si è giustificato. Forse, più semplicemente, è in sintonia con il nuovo corso liberalizzatore e tollerante riassumibile nel motto “spinelli per tutti”. In realtà, nella Consulta in cui entra l’ex pasionaria rossa non c’è lo stesso spazio per tutti, perché comunità e operatori non allineati con il governo sono stati emarginati. Prima la composizione dell’organismo era più equilibrata. L’inserimento della Ronconi è un caso di “riciclaggio”, un pessimo esempio. C’è chi ha commentato: «Invece di combattere la droga si premiano i terroristi». Ma quelli citati non sono gli unici  casi di “recupero”. Pullulano i personaggi che hanno messo a ferro e fuoco l’Italia all’epoca in cui nelle stanze dei bottoni c’erano la Dc e i suoi alleati. Uomini e donne che durante gli anni di piombo hanno tenuto in scacco il Paese con omicidi, attentati e sequestri di persona e che ora sono non solo liberi, ma addirittura pagati da quello Stato che volevano distruggere.
Certo, è data a tutti la possibilità di ravvedersi, ma un conto è riprendere umilmente e faticosamente il cammino di una esistenza normale, nella discrezione e lontano dai riflettori, un altro è entrare organicamente in una struttura di potere e di governo che ci riguarda tutti. Hanno deposto le armi e rinunciato alla violenza, è vero, ma senza avere sostanzialmente abdicato alle proprie idee e alla propria visione del mondo. Ciliegina sulla torta, l’uscita dal carcere prima di Natale in libertà condizionata di Barbara Balzerani, una delle Br del delitto Moro, condannata a tre ergastoli e mai pentita. Unico vincolo: nei prossimi cinque anni non potrà lasciare Roma, il comune di residenza. Qualcuno vuole chiamare anche lei per consulenze ad alto livello?
Il sospetto che una persona normale ricava da queste situazioni, non temerario ma fondato sui fatti, è che ci sia un legame forte fra chi è al governo e questi ex terroristi. Un legame che nasce magari dal rifiuto della violenza, ma non dell’ideologia che ha generato violenza e terrorismo. Come se dicessero: “abbiamo sbagliato il metodo, siamo stati sciocchi a pensare di poter fare la rivoluzione con le armi e il terrore, ma oggi c’è la possibilità reale di far trionfare il comunismo (o qualcosa di simile, in versione post 1989, cioè relativista e nichilista) sfruttando l’opportunità del governo di centro-sinistra”. E tutto questo non può non inquietare.

 

Due atti di grazia e uno di assistenza “sospetti”.

Diverse, ma connesse – ne accenniamo brevemente – sono altre due questioni, che fanno parte della stessa serie. Ovvero: premiamo la trasgressione, cambiamo i fatti e i verdetti della storia in nome del “politicamente corretto”. Così, l’istituto della grazia, una prerogativa del Capo dello Stato da utilizzare in casi eccezionali, è stato usato dal primo Presidente comunista della Repubblica, Giorgio Napolitano, per far uscire dal carcere prima Ovidio Bompressi, condannato per il delitto Calabresi (Adriano Sofri è in attesa dello stesso atto di clemenza), poi il medico Salvatore Piscitello, condannato per aver ucciso il figlio Sergio, con gravi problemi psichici. Di particolare rilevanza il secondo provvedimento, arrivato proprio nei giorni dell’accesa discussione sull’eutanasia suscitata dalla dolorosa vicenda di Piergiorgio Welby. Come esempio di neutralità del Quirinale, non c’è male. L’altra questione è l’assegno straordinario vitalizio, previsto dalla legge Bacchelli per i cittadini che si sono distinti nel mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo e dello sport, assegnato all’84enne Aldo Braibanti. Trasecoliamo. Braibanti si era distinto per ben altro: fu infatti lui, negli anni Sessanta, ad essere condannato a nove anni di detenzione (non scontati per intero) per il reato di “plagio” nei confronti di un giovane. Quel reato, effettivamente forse un po’ vago, fu in seguito cancellato dal codice penale. Resta il fatto che Braibanti era un omosessuale dichiarato che amava accompagnarsi con ragazzini: nell’Italia perbenista di allora si usava l’espressione “corruzione di minorenni”, oggi non si può dire. Anche in questo caso il provvedimento, in tempi di discussione sui Pacs e legalizzazione delle unioni omosessuali, capita a fagiolo.

IL TIMONE – N.59 – ANNO IX – Gennaio 2007  – pag. 12 -13

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