Chiarissime indicazioni di Benedetto XVI. Che fornisce i criteri per giudicare se quanto affermano certi teologi corrisponde o meno alla verità. Basta confrontarlo con il Catechismo della Chiesa Cattolica
Discorso ai sacerdoti
Il primo è un discorso a tutto campo tenuto nell’Aula delle Udienze in Vaticano la sera del 10 giugno, che ha visto il Santo Padre allacciare un dialogo serrato con sacerdoti rappresentanti dei cinque continenti. Uno di loro ha chiesto a Benedetto XVI come fare per non disorientarsi dinanzi ad interpretazioni soggettive che nella Chiesa vogliono prendere il posto dell’insegnamento del Papa e dei vescovi, costituendo così un pensiero non cattolico, per il quale sarebbe il mondo a giudicare la Chiesa e non viceversa. Benedetto XVI ha risposto invitando innanzitutto i teologi a non avere paura di chi agita il “fantasma della scientificità” a confronto con la semplicità disarmante della dottrina cristiana, perché tale scientificità è spesso imbastita di mere ipotesi, presentate però come tesi incontrovertibili, “dogmatiche”. Tuttavia, almeno dal dopoguerra ad oggi, esse si sono succedute, invecchiando al punto che appaiono oggi quasi ridicole, come, per esempio, l’ipotesi del “Gesù della storia” differente dal “Cristo della fede”. Il Papa ha rivelato d’aver resistito a quelle ipotesi, da studioso e da docente, e ha invitato a fare altrettanto. Soprattutto, ha invitato a confrontarle con «la grande fede della Chiesa che è presente in tutti i tempi e ci apre l’accesso alla Verità».
Ecco il metodo cristiano: misurare il pensiero nuovo con l’esperienza della tradizione. Questo è ragionevole: non un concetto falsato e insufficiente di ragione, quella «positivistica – quella che esclude il trascendente – (che) non è la vera ragione». Qui il Papa innesta la critica alle pretese di una ragione la quale, presentando solo le cose sperimentabili, è, per il Pontefice, una ragione insufficiente e debole. Il teologo, invece, deve usare la «ragione grande», «avere l’umiltà di non sottomettersi a tutte le ipotesi del momento».
Chi si è comportato così? I santi. E indubbiamente, il popolo segue i santi e non i teologi, o meglio i santi che sono i veri “teologi”, quelli cioè che parlano di Dio. Che presentano, come direbbe Paolo, una dottrina sicura, sana e pura (Cfr Lettera a Tito 1,7-11; 2,1-8): sicura, perché fondata su Gesù Cristo e sul primato petrino; sana, perché immune da pensieri fuorvianti; pura, perché scevra da inquinamenti delle opinioni mondane. L’uomo non vuole camminare sulle sabbie mobili delle opinioni, ma andare sul sicuro, per questo è attratto dai santi, di ogni tempo. I santi sono la prova che Gesù è imitabile e così provano dove è la vera Chiesa.
Laddove nella Chiesa prevalgono le interpretazioni soggettive, la prima a farne le spese è la Sacra Scrittura: il teologo eccentrico o il pastore brillante ritiene sempre che la sua interpretazione sia quella giusta, anche se difforme dal Magistero; guai a chi li contraddice. Dimenticano di aver ricevuto la Scrittura dalla Chiesa, corpo vivo che la custodisce come presenza viva della Parola divina: la Scrittura “non è un libro isolato”, ma è come la cartilagine di un corpo vivo. Perché si ha fastidio della dottrina di fronte a quello che il Signore ci ha dato: «la Chiesa come soggetto vivo con la struttura dei vescovi in comunione col Papa»? Il perché è nell’invincibile superbia adamitica che mi fa ritenere infallibile.
Allora, ecco l’importanza di una formazione teologica che sappia innanzitutto distinguere la dottrina dalla teologia: la prima è costituita dalla Scrittura e dalla Tradizione dei Padri e dei santi dottori, dalla Liturgia, interpretate dal Magistero vivente ecclesiale; la seconda, innervata da questa, ne assimila il contenuto e lo esprime in modo da servire alla predicazione. La teologia non si esaurisce nella interpretazione, ma nell’uscire in certo senso da se stessi e con la guida del Magistero attingere alle sorgenti del rinnovamento che sono appunto la Sacra Scrittura e la Tradizione. «Dobbiamo conoscere anche le correnti del nostro tempo – ha ricordato il Santo Padre ai sacerdoti – per rispondere ragionevolmente, per poter dare – come scrive san Pietro – ragione della nostra fede. Il criterio della fede è quello con cui valutiamo anche i teologi e le teologie». Questo è il lavoro teologico che permette di difendere la fede per poterla diffondere.
A questo punto Benedetto XVI ha indicato un criterio assolutamente sicuro: il Catechismo della Chiesa cattolica. E ha aggiunto: «Qui vediamo la sintesi della nostra fede e questo catechismo è realmente il criterio per vedere dove va una teologia, se è accettabile o non accettabile». Il Papa ne ha raccomandato la lettura e lo studio, in modo da «avere uno spirito critico contro le tendenze della moda» e nello stesso tempo essere aperti alle vere novità che provengono dalla «profondità inesauribile della Parola di Dio che si rivela nuova in tutti i tempi, anche nel nostro tempo». Il criterio non è quindi il Concilio, ma il Catechismo che include anche quanto aggiornato dall’ultimo Concilio, non dall’ideologia conciliarista, che ha caricato certe espressioni in sé buone di un significato erroneo, avvelenando i frutti del Concilio. Si è molto parlato di catechesi negli ultimi decenni, ma ciò che in molti casi “riecheggiava” – etimologia della parola greca catechesi – era più l’opinione di chierici e laici conformi alle mode di pensiero corrente piuttosto che la dottrina della Chiesa.
La vera pastorale
Dato il criterio per distinguere la vera dalla falsa dottrina, risulta chiarita anche la vera pastorale, quella che riconosce Gesù come il pastore “vero”, traduzione compiuta del greco agathos: è vero perché è la Verità e la Vita, e la Via per arrivarci. Se Egli ci guida col suo bastone: «Anche la Chiesa deve usare il bastone del pastore – ha ricordato il Santo Padre nell’omelia pronunciata a chiusura dell’Anno Sacerdotale l’11 giugno, festa del Sacro Cuore – il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può essere un servizio d’amore. Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare l’eresia, il travisamento e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente inventassimo la fede».
Più chiaro di così! La “pastorale” ha bisogno del pastorale, il bastone del Vescovo, che sta a simboleggiarla proprio nel modo descritto dal Papa. Perché non si continui a fare del concilio Vaticano II qualcosa di analogo al latrocinium accaduto ad Efeso, quando il popolo dovette cacciare i pastori che avevano deformato la dottrina cattolica.
IL TIMONE N. 97 – ANNO XII – Novembre 2010 – pag. 50 – 51
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