Con la lingua latina, univa i popoli di tutta l’Europa nel canto liturgico. Un patrimonio che non possiamo permetterci di dilapidare.
La sensazione di quanti si addentrano nello studio del canto gregoriano, non deve essere molto dissimile da quella di chi, in una mattina di primavera, si inoltra in un prato fiorito. I gigli, i poveri gigli di campo, tanto amati dal Vangelo, sembrano possedere il misterioso potere di emergere dal nulla. In modo disomogeneo e disorganico, come le pennellate di un pittore impressionista. Il canto gregoriano nasce con il medesimo disordine e disomogeneità. Saremmo molto lontani dal vero se pensassimo che questa espressione artistica, povera e colta al tempo stesso, ci sia stata data tutta in una volta. Con quella compiutezza che siamo abituati a trovare nella musica d’autore.
La sua nascita è infatti progressiva ed imprevedibile. I primi dati sicuri sì aggirano intorno al 750 dell’era volgare dunque, in piena età carolingia. Ma ad almeno 80 anni più tardi risalgono i testi completamente notati. Che diventano così patrimonio comune dell’intera Europa cristiana.
Che cosa si intende per notazione? La notazione costituisce forse il segreto più grande del canto gregoriano. Per secoli i cantore, i musici cui spettava il compito di elevare al Signore il proprio jubilum, sono stati sottoposti all’incessante sforzo della memorizzazione. Occorreva ricordare tutto – l’inflessione, la distanza e l’altezza delle note, le variazioni agogiche del brano – perché solo il ricordo , la memoria erano in grado di fissare il suono sinuoso dispiegarsi nell’aria.
Poi, d’improvviso, qualcuno fece l’incredibile scoperta. Il gesto chironomico poteva essere riprodotto tramite figure simboliche. Quando si parla di gesto chironomico, si intende il movimento della mano, che traccia nello spazio la melodia nelle sue due linee essenziali. Di ascesa e caduta. La scoperta del segno, o meglio, dei segni adeguati, che vennero poi chiamati neumi, trasformò la pergamena con le sue notazioni nel primo spartito musicale dell’Occidente cristiano. Permettendo così al cantor di richiamarsi con grande precisione alla mente la melodia, nel corso di quella recordatio, che costituiva una sorta di prova generale, prima della celebrazione liturgica. Il canto gregoriano, dunque, aveva, a somiglianza del latino, la caratteristica di unire i vari popoli d’Europa in un comune sentire. La Chiesa, madre amorosa di tutti e di ciascuno, li stringeva così tra le sue braccia, non soltanto attraverso il dogma, la liturgia, la lingua, ma anche tramite quella vox humana, che è per eccellenza la più nobile espressione di gioia di fronte alla grandezza e alla maestà dell’universo creato.
“Un uomo che gioisce – scriveva, infatti, Agostino esplode in suoni di esultanza senza parole, così che sembra che egli, traboccando di eccessiva gioia, non possa esprimerla con parole, ma solo con suoni”. Suoni vocali, naturalmente, non strumentali. Il canto gregoriano, infatti, essendo espressione del sacro ovvero di quanto è destinato a Dio e a Dio soltanto, esclude lo strumento musicale. Che è invece chiamato ad accompagnare l’esistenza quotidiana – laica, potremmo dire della comunità.
Il canto gregoriano, invece, per espressa volontà di papa Gregorio I, il grande pontefice benedettino del VII secolo, a cui tradizionalmente si fa risalire scelta di repertorio e normativa liturgica, fu, sin dall’inizio, designato ad accompagnare i momenti più alti del sacrificio della croce. Quello che si rinnova ogni giorno, sotto i nostri occhi, troppo spesso distratti, tramite l’ufficio della messa.
Il Kirie, il Gloria, il Credo, il Sanctus e l’Agnus Dei diventano così le trepide domande e le sublimi risposte del dialogo che, come un ponte, unisce il cielo alla terra.
RICORDA
“La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale”.
(Concilio Vaticano II, Costituzione Sacrosantum Concilium, n. 116).
IL TIMONE N. 21 – ANNO IV – Settembre/Ottobre 2002 – pag. 43