Le Chiese orientali non ebbero mai unità rituale e il loro patrimonio liturgico-musicale ha avuto come origine primaria una delle seguenti cinque tradizioni: alessandrina, antiochena, armena, caldea e costantinopolitana.
Tre di queste tradizioni, capostipiti dei riti orientali, sorsero nell’ambito dell’impero romano: l’antiochena a Gerusalemme, l’alessandrina e la costantinopolitana partendo dalla Cappadocia; mentre due di esse nacquero ai margini dell’Impero: la caldea in Mesopotamia e Persia, e l’armena nelle regioni delle popolazioni armene. La tradizione rituale alessandrina ebbe uno sviluppo speciale in Etiopia, mentre quella costantinopolitana o bizantina si conservò nelle Chiese autocefale provenienti, nei secoli successivi, dal Patriarcato medesimo.
Si deve inoltre rilevare che tanto la tradizione alessandrina come l’antiochena nelle comunità rimaste ortodosse (cioè fedeli ai Concili Efesino e Calcedonese) a poco a poco vennero sostituite dalla tradizione rituale costantinopolitana, che aveva il pregio di essere quella dell’imperatore e della corte, e perciò preferita dai funzionari imperiali, dimodoché, dal Medio Evo in poi, la liturgia di Alessandria non fu più praticata se non dai monofisiti d’Egitto e di Etiopia, e quella di Antiochia dai monofisiti di Siria, Palestina e Mesopotamia, nonché dai Maroniti, che vi apportarono poi alcune modifiche. Il rito bizantino, per quanto nato tra Antiochia, prima sede di san Pietro, e la Cappadocia, ebbe sviluppo particolare nella capitale d’Oriente, soprattutto dopo che nel Concilio di Calcedonia del 451, Costantinopoli fu riconosciuta sede di un patriarcato che presto elaborò un suo calendario, riti propri e peculiarità liturgico-musicali particolari.
Contrariamente all’unicità del latino in tutti i riti occidentali, in seno al rito bizantino allignò fin da subito una molteplicità di lingue: accanto al greco maggioritario, si conservò il siriaco, il paleoslavo
(per le popolazioni bulgare), l’armeno e il georgiano. La Messa fu sempre celebrata in base a due formulari attribuiti a san Giovanni Crisostomo e a san Basilio, mentre nell’Ufficio prevalsero fin dai primordi gli inni sacri la cui genesi fu giustificata da una singolare e affascinante teoria che risaliva a Dionigi l’Areopagita che, nel De coelesti hierarchia (testo che influenzerà in Occidente san Tommaso e la Scolastica), aveva sostenuto che l’armonia dei cieli, tramite le gerarchie angeliche
e segnatamente i Serafini, veniva comunicata alla Chiesa terrena in persona dei santi e dei profeti che la trasmettevano ai melografi divinamente ispirati: questa radice portò a fissare degli inni che rimasero sostanzialmente immutati nei secoli, sebbene con varianti regionali (come in Italia meridionale o a Ravenna), al pari della pittura sacra bizantina la quale restò ancorata per secoli a canoni praticamente uguali che gli iconografi hanno perpetuato fino al sec. XVI e oltre.
La maggior presenza di inni nella liturgia bizantina aveva ridotto al minimo, fin dai primordi, l’uso dei salmi, anche perché le Chiese orientali – contrariamente all’Occidente – cercarono sempre una maggior differenziazione dalle comunità ebraiche massicciamente diffuse in tutto il bacino mediterraneo orientale e conviventi a stretto giro soprattutto nelle grandi città dell’Impero, sebbene anche nelle liturgie orientali la radice giudaica delle varie eredità cantuali sia innegabile.
Il canto in greco, che costituisce il fondo più nutrito della tradizione bizantina, si sviluppò fra il III e il IX secolo, accogliendo influssi antiocheni e gerosolimitani ed evolvendo da forme originariamente monastiche verso forme maggiormente solenni ed elaborate, connesse con il cerimoniale imperiale della corte e, soprattutto dopo il 1054, con i particolari usi del patriarcato ormai scismatico.
Dopo l’età giustinianea il repertoriò prese infatti ad ampliarsi sicché iniziarono a sperimentarsi le prime forme di scrittura, le quali, probabilmente avviate durante la lotta iconoclastica che certamente disperse un grande patrimonio di manoscritti, troveremo assestate verso il IX sec. con i segni ecfonetici bizantini che si perfezionarono gradualmente fino al XIII secolo: essi furono una sorta di grafia musicale, formata da particolari accenti che venivano sovrascritti al testo da cantarsi, indicandone le varie inflessioni sonore della voce. Secondo una teoria musicografica, per lungo tempo accreditata, tali segni hanno influenzato la nascita dei neumi, ovvero della notazione del canto gregoriano in Occidente.
La caduta di Costantinopoli in mano turca nel 1453 porterà a una brusca e grave frattura nella storia del rito e del canto bizantino, che perderanno per secoli anche autoctone fonti a stampa, visto che l’unica editoria liturgico-musicale a stampa che residuerà sarà irradiata da Venezia, poiché il patriarcato di Costantinopoli, contrariamente al papato, per lungo tempo guardò con grande diffidenza alla stampa gutemberghiana dei libri liturgici.
A coloro che mano a mano ritornarono all’unità della Chiesa cattolica, la S. Sede, di regola, lasciò sempre il proprio patrimonio rituale e musicale, corretto soltanto nelle sue eventuali espressioni eterodosse. Questo principio, cui si deve la varietà di riti nella Chiesa cattolica, venne già affermato da papa san Leone IX allorché scriveva al patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario, cui si deve lo scisma d’Oriente nel 1054. â–
Il Timone – Marzo 2015