Imprigionato dai nazionalsocialisti e dai comunisti. Eroe della controrivoluzione ungherese del 1956. Scomodo testimone per 15 anni di reclusione nell’ambasciata americana di Budapest. Un esempio luminoso di fedeltà a Cristo e alla Chiesa
Il 29 marzo di quest’anno è stato il centoventesimo anniversario della nascita del cardinal Mindszenty: certamente una figura chiave nella storia della Chiesa del ventesimo secolo, eppure, altrettanto certamente, poco conosciuta. Vale quindi la pena di ripercorrerne brevemente la vicenda, anche per impedire che le nuove generazioni ne perdano la memoria, e che chi non è più giovane ne serbi un ricordo vago e impreciso.
Nato a Mindszent – un villaggio della campagna ungherese – da una famiglia profondamente cattolica, entra nel 1903 in seminario, dove compie brillantemente gli studi fino all’ordinazione sacerdotale, avvenuta il 12 giugno 1915. Comincia così il suo lungo ministero al servizio della Chiesa, vissuto con fedeltà incrollabile e senza compromessi, ma anche intessuto di sofferenza e di persecuzioni.
Nel 1918 – anche per opera della Massoneria – crolla la monarchia ungherese, e poco dopo arrivano al potere i comunisti di Béla Kun (1886-1938), una singolare figura di fanatico rivoluzionario che, oltre ad adottare misure economiche rovinose, instaura metodi di governo terroristici, eliminando anche fisicamente gli oppositori moderati: a tale scopo si serviva di una milizia speciale denominata “i figli di Lenin”, una sorta di guardia pretoriana feroce e spietata. Il giovane sacerdote viene arrestato e incarcerato; ma per fortuna la dittatura comunista dura pochi mesi: nell’agosto 1919 Béla Kun fugge a Vienna e morrà nel 1930, ucciso dalla polizia segreta di Stalin: subisce così la sorte riservata a non pochi stalinisti.
Nazionalsocialisti e comunisti
Nel 1941 i nazisti invadono l’Ungheria. Don Jozsef Pehn (questo era il nome del sacerdote) per protesta contro di loro abbandona il cognome di origine e assume quello di Mindszenty, con riferimento al suo paese natale. Nel 1944 papa Pio XII, in considerazione della sua vita di pietà e del suo coraggioso impegno a favore dei poveri e dei perseguitati, lo nomina vescovo di Veszprém, dove nel frattempo erano arrivati i nazisti: e così il novello vescovo finisce ancora una volta arrestato dai nuovi padroni. Ma ormai l’Armata Rossa sta invadendo da Oriente l’Ungheria, liberando dai nazisti il Paese, che finisce così dalla padella nella brace. In quei tragici giorni mons. Mindszenty viene nominato arcivescovo e Primate di Ungheria e, nel 1946, viene fatto Cardinale: «Voglio essere un buon pastore – aveva detto iniziando il servizio vescovile – un pastore pronto a dare la vita per il suo gregge». E così fu.
Lo scontro con i comunisti – che contrastavano brutalmente e sistematicamente ogni sua iniziativa in difesa dei sofferenti e della scuola cattolica (si pensi che la nuova legge del 1948 aveva nazionalizzato 4885 scuole, di cui 3148 appartenevano alla Chiesa cattolica) – andava facendosi sempre più aspro. La resistenza impavida del Cardinale di fronte ai violenti attacchi di Mátyás Rákosi (1892-1971), l’uomo di Stalin a capo del partito comunista ungherese, non poteva concludersi che con il suo arresto, avvenuto il 26 dicembre 1948 con l’accusa di alto tradimento. Comincia allora una delle pagine più infami e atroci della storia comunista, che pure di infamie e atrocità è piena: per trentanove giorni il Cardinale viene torturato e umiliato nel modo più abietto, allo scopo di ottenere la confessione di essere stato un “nemico del popolo”: la confessione finalmente arriva, anche se dopo la firma il Cardinale aggiunge la sigla “c.f.”, ossia coactus feci («l’ho fatto perché costretto»). Il 3 febbraio 1949 comincia il processo – la solita tragica farsa di tutti i processi comunisti – che si conclude con la condanna all’ergastolo per cospirazione tesa a rovesciare il governo. Resta ovviamente senza effetti la lettera che il 2 gennaio 1949 Pio XII invia ai vescovi ungheresi, con la quale condanna severamente l’azione del governo contro «i sacri diritti della Chiesa, in difesa dei quali il cardinale arcivescovo lavorò con animo forte e impavido». Anzi, di questa lettera – che lo avrebbe sicuramente confortato – il Cardinale non venne a sapere nulla.
La rivolta del ’56
Ma ecco, nell’ottobre 1956, la rivolta popolare contro il regime, il disperato tentativo di liberare l’Ungheria dall’oppressione comunista: dieci giorni di drammatici e violenti scontri fra una popolazione disarmata e la polizia e l’esercito, che saranno poi sostenuti dalle forze armate sovietiche, intervenute pesantemente con oltre 1000 carri armati, dopo aver simulato una trattativa diretta in realtà a guadagnare tempo. Ma il 30 ottobre il Cardinale era stato liberato e portato in trionfo. Il 3 novembre rivolge un lungo, appassionato radiomessaggio alla nazione, in cui ribadisce che «la battaglia combattuta non è stata una rivoluzione, ma solo una battaglia per la libertà, intrapresa perché la nazione vuole decidere liberamente della propria vita e disporre liberamente del proprio destino». Ma l’illusione dura poco, perché il 4 novembre la rivolta popolare viene schiacciata dalle truppe sovietiche e torna nel paese (che ha lasciato sul terreno almeno ventimila morti) una tragica “normalità”: il Cardinale trova rifugio nell’Ambasciata degli Stati Uniti, dove rimarrà quindici anni, senza poterne mai uscire, nemmeno per partecipare al funerale dell’anziana mamma.
Sarebbe interessante a questo punto ricordare dettagliatamente – ma la cosa ci porterebbe troppo lontano – i personaggi più o meno famosi del mondo comunista (Togliatti in testa) che si sono schierati senza esitazione a favore del sanguinario e spietato intervento sovietico, sostenendo con spudorata sfacciataggine che si era trattato di difendere «le grandi e profonde riforme strutturali realizzate dalla giovane repubblica dopo la liberazione dai fascisti tedeschi e magiari» (così, testualmente, il Partito comunista italiano aveva giustificato, anni prima, il processo contro il cardinal Mindszenty).
La solitudine dell’esule e del politico
Sono, quelli passati nell’ambasciata americana, anni di solitudine e di isolamento anche psicologico e morale, aggravati dal fatto che si sentiva sempre più un ospite ingombrante (lo stesso presidente Nixon gli consigliava «di rassegnarsi al suo destino»): andava sempre più diffondendosi, in Occidente, quella sorta di febbre pacifista che veniva chiamata (con un termine introdotto dal Cancelliere tedesco Willy Brandt) Ostpolitik, e mirava alla distensione e alla coesistenza, nella sottintesa convinzione che il comunismo fosse una realtà ormai definitiva, con cui era necessario imparare a convivere. Questa convinzione era condivisa dalla diplomazia vaticana, sempre più tesa a “normalizzare” i rapporti con i regimi comunisti, per salvare in qualche modo il salvabile. È chiaro che a questo punto il card. Mindszenty era diventato un ostacolo, che rendeva difficili i rapporti fra la Chiesa e lo Stato.
Si arriva così al 1971, quando il Cardinale – che aveva più volte rifiutato di lasciare il Paese – si rassegna, a seguito di un ordine di Paolo VI, a trasferirsi a Roma. Il 28 settembre 1971, prima di lasciare l’ambasciata, il Cardinale disse ai parenti che erano andati a salutarlo – lo ricorda Giulio Andreotti in un articolo pubblicato su 30 Giorni (2007, n. 4) –: «Verrà presto un giorno in cui il tempo presente sarà cancellato, perché travolto dalla sua stessa insipienza. La pretesa di costruire un mondo senza Dio sarà sempre illusoria; e non farà che rafforzare l’unione della Chiesa con il popolo e con tutti coloro che soffrono. Solo coloro che hanno paura della verità temono Cristo».
Tornato in Occidente, prima a Roma e poi a Vienna, il Cardinale non accettò di mantenere un completo silenzio su quanto accaduto, anche se agì sempre con grande saggezza e prudenza: tanto che non reagì nemmeno quando, nel 1973, la sua sede arcivescovile fu dichiarata vacante. Una testimonianza altissima e commovente dell’intera sua vicenda è costituita dalle splendide Memorie, che il Cardinale pubblicò nel 1974 (ediz. italiana Rusconi, Milano 1975), e che il servo di Dio Paolo VI definì – il 30 agosto 1973, dopo aver letto il manoscritto – opera «preziosa, affascinante e avvincente».
La morte lo ha colto a Vienna il 6 maggio 1975, quando era ormai considerato in qualche modo “un uomo del passato”, sostanzialmente emarginato rispetto allo spirito moderno. Carlo Bo, per esempio, arrivò a scrivere, sul Corriere della Sera del 7 maggio 1975, che “l’affare Mindszenty” era divenuto da tempo «un mero fatto personale»: «non era più un simbolo, non era più una bandiera». Sepolto per 15 anni a Mariazell, il suo corpo è stato traslato nel 1990 nella Cattedrale di Budapest, dove anche il beato Giovanni Paolo II si è recato a rendergli omaggio. Sulla sua tomba avvengono grazie e guarigioni, e sempre più diffusa è la sua fama di santità, tanto che è stata avviata la causa di beatificazione. Un’ultima osservazione. L’Osservatore Romano del 5 aprile 2012 dà notizia che un’ordinanza della Procura Generale di Budapest aveva, pochi giorni prima, definitivamente riabilitato il Cardinal Mindszenty sul piano legale, morale e politico. È chiaro che si tratta di un atto più che altro simbolico e giuridicamente del tutto scontato: in realtà, ha un suo profondo significato, perché – come rileva il giornale vaticano – serve a «restituire al servo di Dio Joszef Mindszenty il ruolo storico che gli spetta: quello di martire e testimone della fede nel XX secolo».
PERCHÈ VIVA LA MEMORIA
Nel 1956, tra i leader del Partito Comunista italiano che, seguendo Togliatti, si schierarono a favore del sanguinario intervento sovietico in Ungheria, figurava l’attuale Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il quale accusava allora il compagno Giolitti, che condannò l’invasione sovietica e uscì dal Partito, di non «vedere come nel quadro della aggravata situazione internazionale, del pericolo del ritorno alla guerra fredda non solo ma dello scatenamento di una guerra calda, l’intervento sovietico in Ungheria, evitando che nel cuore d’Europa si creasse un focolaio di provocazioni e permettendo all’Urss di intervenire con decisione e con forza per fermare l’aggressione imperialista nel Medio Oriente abbia contribuito, oltre che ad impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, abbia contribuito in misura decisiva, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell’Urss ma a salvare la pace nel mondo». (GB)
IL TIMONE N. 114 – ANNO XIV – Giugno 2012 – pag. 22 – 24
Riceverai direttamente a casa tua il Timone
Se desideri leggere Il Timone dal tuo PC, da tablet o da smartphone
© Copyright 2017 – I diritti delle immagini e dei testi sono riservati. È espressamente vietata la loro riproduzione con qualsiasi mezzo e l’adattamento totale o parziale.
Realizzazione siti web e Web Marketing: Netycom Srl