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12.12.2024

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Il carnevale è anticristiano?
31 Gennaio 2014

Il carnevale è anticristiano?

 

  

 

Né esaltazione né condanna. Da biasimare l’aspetto trasgressivo, da valorizzare quello dell’allegria e dello scherzo, perché il cristianesimo è la religione della gioia. Anche Gesù rideva e scherzava.
 

 


In queste settimane di febbraio in tutto il mondo ed in forme diverse è tempo di carnevale: in molti luoghi si indossano maschere tradizionali o comuni e si mangiano dolci tipici, si svolgono sfilate, talvolta con carri allegorici, si lanciano coriandoli, si fanno scherzi. Probabilmente sentiremo o leggeremo da una parte inni alla trasgressione, dall’altra condanne senza appello. Nelle righe che seguono provo a svolgere qualche riflessione, senza dubbio opinabile e senza la minima pretesa di esaustività, sul carnevale dal punto di vista cristiano, alla ricerca di un punto di equilibrio che eviti sia le esaltazioni sia i moralismi.

Il senso attribuito al carnevale dai cristiani
Il carnevale si svolgeva già, perlomeno, presso i Greci ed i Romani (i primi celebravano i Baccanali, i secondi i Saturnali) e con l’avvento del cristianesimo acquista un significato nuovo a cui allude la probabile etimologia: “carne vale”, cioè saluto alla carne, in quanto la quaresima era un periodo di quaranta giorni di magro (tanto che le botteghe dei macellai venivano chiuse) e di rigoroso digiuno prima della Pasqua. Oggigiorno l’astinenza dalla carne è richiesta solo nei venerdì di quaresima ed il digiuno (peraltro commisurato alla situazione di ciascuno, quindi non necessariamente totale) è tassativo solo il primo giorno di quaresima e nel venerdì santo; quanto alla penitenza, è mediamente molto meno praticata. Dunque, da questo punto di vista, il senso del carnevale per il cristiano si è molto sbiadito.

L’aspetto da biasimare
Per non poche persone resta l’aspetto trasgressivo pre e anti cristiano: come ha scritto giustamente Vittorio Messori qualche anno fa (cfr. bibliografia), in passato il carnevale rispondeva al desiderio di un periodo di «zona franca» per una massiva soddisfazione di (discutibili) bisogni che nel resto dell’anno generalmente la società biasimava in modo duro: il bisogno, semel in anno, «di allentare i freni morali, di lasciar spazio ai richiami della gola, magari dell’erotismo. Il bisogno di sospendere i ruoli sociali (e sessuali: quanti uomini travestiti da donne!) con le loro gerarchie e i loro doveri. […] Ebbene: basta guardarsi attorno per accorgersi che, oggi, tutto l’anno è carnevale. Siamo figli del Sessantotto e del suo “è vietato vietare”: che è – basta pensarci un poco – l’estensione universale della zona franca carnevalesca». Oggi non solo il permissivismo è totale, non solo i ruoli sociali maschili e femminili sono stati sovvertiti, ma anche l’identità maschile/femminile è messa in discussione dall’ideologia di gender (secondo cui l’essere maschio/femmina non è un dato di fatto da assumere, ma un’opzione a disposizione del soggetto, come anche essere bisessuali, omosessuali o transgender). Ora, riguardo a questa dimensione “licenziosa” del carnevale di alcuni soggetti (ma non certo di tutti) il giudizio non può che essere negativo.

L’aspetto da valorizzare
Ma c’è un’altra dimensione del carnevale che non bisogna condannare, che anzi si può valorizzare, ovviamente nella giusta misura: quella dello scherzo (purché simpatico e non pesante, ovviamente) e dell’allegria (purché non volgare, e nemmeno artificiosa o forzata come non di rado avviene). In effetti il cristianesimo, se si sgombra il campo dalle caricature, è la religione della gioia, e quindi anche (in una certa misura) del riso. Il cristianesimo è la religione della gioia per vari motivi: per esempio, perché l’uomo non è sottomesso ai voleri di divinità capricciose o all’implacabile ingranaggio del fato, bensì è amato paternamente da un Dio provvidente (e, dunque, in un senso non così dissimile da quello dell’annunciazione a Maria, a ciascuno di noi è rivolto l’annuncio: «rallegrati, gioisci, il Signore è con te»); per esempio, perché Cristo si è incarnato o, ancora, perché il vero cristiano sperimenta già «il centuplo quaggiù» (Mc 10, 30). È per questi ed altri motivi che il vangelo è proprio una buona e gioiosa notizia (come dice l’etimologia) e qui già emerge una giustificazione del riso, in quanto quest’ultimo è non di rado connesso alla gioia.
Ma, oltre a ciò, il riso ha piena cittadinanza nel cristianesimo perché è vero che la vita non va vissuta superficialmente, è vero che essa è una questione serissima in cui si decide il nostro destino eterno; ma, d’altra parte, nessuno deve prendersi troppo sul serio, né prendere troppo sul serio il mondo, che è importante e prezioso, ma non assoluto: saper ridere delle cose significa saperle ridimensionare sapendo che l’unica cosa assolutamente importante è conseguire la comunione ultraterrena con Dio (e perciò vivere ora come questo conseguimento richiede), non gli affari, né la scienza, né il lavoro, né la politica, ecc. Perciò, come dice Qoelet (3,4), «c’è un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per fare lutto e un tempo per danzare». Tra l’altro, ridere su se stessi è spesso causa e insieme effetto di umiltà, una virtù che è basilare per la vita moralmente buona. Per contro, come ha scritto Ferdinando Castelli (cfr. bibliografia), il cristiano che non sa ridere è sprovvisto del senso del relativo, prende tutto sul serio, e spesso non sa compatire; invece di pensare Dio come Padre, lo vede solo come un giudice inflessibile e implacabile. Un simile modo di concepire Dio è quello che erroneamente molti attribuiscono al cristianesimo: per esempio Freud, che ritiene che il cristianesimo pensi Dio in tal modo, e che così generi nei credenti un senso di colpa continuo; oppure Il nome della rosa di Umberto Eco, che è costruito narrativamente sulla tesi secondo cui la Chiesa condanna l’umorismo che «uccide la paura, e senza la paura non ci può essere la fede. Senza la paura del demonio non c’è più la necessità del timore di Dio» (citazione dall’omonimo film, che esprime un concetto del libro).

Gesù scherzava?
Ci si può ancora chiedere se Gesù rideva. È vero che nei vangeli il verbo ridere non gli viene mai attribuito, ma ci sono verbi che potrebbero benissimo indicare anche il ridere di Gesù, come spiega Gianfranco Ravasi (cfr. bibliografia), che cita inoltre un testo di Helmut Gollwitzer (dal titolo La gioia di Dio) che investiga sulla frequente presenza dei verbi della gioia e dell’esultanza nel vangelo di Luca.
Sappiamo di certo dai vangeli che Gesù partecipava alle feste (per esempio alle nozze di Cana), che beveva e che mangiava e per questo veniva criticato dai moralisti del tempo: ««È venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve e dicono: ecco un mangione e un beone, amico di pubblicani e di peccatori» (Mt 11,19)». Già per questo motivo ad una certa iconografia e ad una certa filmografia (per esempio i film di Pasolini ed anche di Zeffirelli, se non ricordo male) che ritraggono Gesù sempre e solo serioso, severo, compunto e ieratico è preferibile La Passione di Mel Gibson, che in una scena gioiosa e toccante (rappresentata in un flashback), gioca, ride e scherza con sua Madre.
Infine, Gesù ha assunto tutto della condizione umana, fuorché il peccato, dunque non può essere mancato il riso e lo scherzo nella sua vita: infatti, come notava acutamente Aristotele, l’uomo è l’unico vivente mortale che ride.

 
 
 
 
 
 
 
 
Per saperne di più…

Ferdinando Castelli, I santi sanno ridere, www.zenit.org.
Vittorio Messori, Carnevale. La follia non abita più qui, www.et-et.it.
Gianfranco Ravasi, Gesù non rideva? Eppure tutto il Vangelo è un inno alla gioia, www.avvenire.it.

 

 

 

 

 

IL TIMONE  N. 100 – ANNO XIII – Febbraio 2011 – pag. 14 – 15

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