Ai tempi di Pio IX gli Stati prelevavano i figli maschi da ogni famiglia per la leva militare triennale o per mandarli in guerra.
Cavour, in Crimea, si alleò coi turchi, che da secoli toglievano ogni anno un figlio alle famiglie cristiane sotto il loro dominio e li allevavano nell’islam per farne Giannizzeri. I russi, per contenere l’irredentismo polacco, portavano i piccoli cattolici in collegi ortodossi. Gli inglesi mettevano gli orfani dei loro militari irlandesi (cattolici) in collegi anglicani; tolsero i figli al poeta Shelley («ateo e di vita scandalosa») per chiuderli in collegio (anglicano). Gli svedesi battezzavano di forza nel luteranesimo i non battezzati. Negli Usa era normale vendere i figli degli schiavi neri.
Eppure, tutti questi protestarono vivamente per il «caso Mortara». Ancora l’altro ieri Giovanni Paolo II se lo sentì rinfacciare all’ingresso, per la prima volta nella storia, nella sinagoga romana. E un’intera pagina del «Washington Post» lo ammonì a non beatificare il «rapitore di bambini» Pio IX. Quel «caso» determinò la fondazione della prima organizzazione ebraica mondiale di autodifesa, che offrì una grossa somma a chi avesse tentato in Roma un raid per «liberare» il «rapito». Libri e libri sono stati scritti per deprecare quella “infame violenza” perpetrata da Pio IX, e ancora vi si insiste.
Così, il nostro Vittorio Messori è andato a cercare l’autobiografia del diretto interessato, la «testimonianza, quasi il verbale di una singolare avventura. Quella di un oscuro bambino ebreo per il quale si batterono un Papa, un imperatore, re, ministri, ambasciatori, principi della stampa e del foro, cardinali e massoni, teologi e rabbini»; l’ha prefata da par suo e data alle stampe per Mondadori: Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX. Morto nel 1940, il «rapito» si era fatto prete, aveva preso il nome di quello che considerava il suo padre spirituale, Pio, ed aveva chiarito una buona volta quella storia cominciata a Bologna, quando, neonato in fin di vita, era stato segretamente battezzato dalla cameriera. Ora, le leggi dello Stato Pontificio (cui apparteneva Bologna) vietavano ai cristiani di servire in case di ebrei e viceversa, proprio per evitare casi come quello. Ancora oggi le norme canoniche proibiscono i battesimi senza il consenso dei genitori, tranne in casi di pericolo di morte.
Torniamo al piccolo Edgardo Mortara: sopravvisse miracolosamente e la faccenda si riseppe. Poiché il Papa è prima di tutto un prete, tutti i battezzati gli stanno a cuore ed è responsabile di fronte a Dio della loro anima. Come scrisse Louis Veuillot, il grande giornalista cattolico, l’affaire ricordava «ai cattolici, che hanno banalizzato le verità di fede, quale sia l’importanza del battesimo.
Pio IX è disposto a perdere tutto quanto resta dei suoi Stati ma a non permettere che si perda un’anima, fosse anche quella di un oscuro bambino». Così, la famiglia Mortara fu invitata a iscrivere il loro figlio ormai cristiano in una scuola cattolica cittadina; cresciuto, avrebbe liberamente scelto se tornare nella religione ebraica. Da notare, en passant, che di lì a poco il futuro Regno d’Italia avrebbe introdotto la «scuola dell’obbligo», esistente ancor oggi e comminante sanzioni penali ai genitori che non ottemperano. Ma scoppiò il «caso», di cui si impadronirono quanti avevano interesse a spingere i Mortara all’intransigenza. Allora il Papa fece portare il bambino a Roma, assumendosene personalmente il padrinato: i genitori potevano visitarlo quando volevano; e lo fecero, smettendo solo quando si accorsero che Edgardo non solo non intendeva tornare indietro ma, anzi, voleva farsi prete.
La stampa liberale soffiò sul fuoco, parlando di plagio e, addirittura, insinuando che il piccolo fosse stato castrato per farne una «voce bianca» nella Cappella Sistina. Protestò perfino il rabbino capo di Roma, Sabatino Scazzocchio, scrivendo al padre del bambino e dicendogli che, se si fosse rivolto a lui, dati i suoi rapporti cordiali col Papa la cosa sarebbe stata risolta senza tutto quel clamore.
Infatti, gli ebrei vivevano pacificamente a Roma da duemila anni; di più: quando, nel Medioevo e nel Rinascimento, erano stati cacciati da tutti i regni d’Europa, erano stati benevolmente accolti proprio a Roma. Nel 1849 la comunità ebraica romana aveva preso le distanze dall’effimera Repubblica mazziniana che aveva costretto alla fuga il Papa. E nessun ebreo romano si era trasferito nei molti Paesi europei in cui vigeva l’equiparazione giuridica. Ma ormai era troppo tardi: il padre del «rapito» veniva generosamente finanziato per girare il continente e tener vivo lo «scandalo» (di cui, va detto, proprio in quei tempi così difficili la Chiesa avrebbe fatto volentieri a meno; ma la Gerarchia, allora, temeva più Dio che gli uomini). Non a caso i Mortara si trasferirono a Torino e poi nella nuova capitale Firenze. Proprio qui, per uno strano scherzo del destino, un’altra cameriera si infilò nella vita dei Mortara, il cui capofamiglia venne «processato (e assolto) per omicidio, accusato di avere aiutato un amico a gettare dalla finestra una domestica».
Quando i piemontesi entrarono in Roma, nel 1870, una delle prime loro preoccupazioni fu quella di andare a «liberare» il «rapito», scoprendo con sconcerto che quello non ne voleva sapere e, anzi, si era fatto prete. I superiori ecclesiastici ritennero prudente farlo riparare all’estero, dove venne visitato anche da don Bosco. Fu qui che don Mortara vergò il memoriale che Messori ha riesumato e tradotto dallo spagnolo (il Mortara era poliglotta). Così recita il sottotitolo: «Appunti storici accompagnati da una bella apologia del grande Pontefice di santa e grata memoria, scritti dal reverendo padre Pio Maria Mortara, Canonico Regolare di San’Agostino, della Congregazione del Laterano». Di suo pugno. Leggiamolo, dunque, per chiarire una buona volta le idee a chi ancora, pelosamente, si straccia le vesti per questa vecchia storia.
TIMONE – N. 45 – ANNO VII – Luglio-Agosto 2005 – pag. 20-21