Operazione-verità? No, la rivelazione cadenzata di messaggi privati è soltanto l’ultima frontiera del moralismo che, in nome della verità, distrugge le persone e il bene comune. E persegue anche doppi fini, come dimostra il caso New York Times.
Da mesi ormai le prime pagine dei giornali sono conquistate dalle cadenzate rivelazioni del sito Wikileaks e dalle vicende ad esso legate, inclusi gli incidenti giudiziari del suo fondatore Julian Assange. E non è ancora finita, anzi c’è la promessa di ulteriori sviluppi, più o meno interessanti. In questi mesi tanto è stato scritto sull’importanza o meno di queste rivelazioni, su chi ne è avvantaggiato e chi ci rimette, sulla attendibilità o meno del personaggio simbolo della vicenda, il già citato Assange.
In questa sede vorremmo invece riflettere su un altro aspetto della questione, probabilmente più decisivo per le sorti della nostra società.
Intanto diciamo che Wikileaks è una organizzazione internazionale che già nel suo nome rivela la propria identità e scopo. La parola “leak” significa letteralmente “perdita”, come quella del rubinetto; in questo caso ci si riferisce alla “fuga di notizie”, documenti riservati e segreti di governi e istituzioni che rivelerebbero comportamenti “non etici”. “Wiki” fa invece riferimento al metodo di Wikipedia, l’enciclopedia collettiva virtuale dove chiunque può contribuire a formulare le voci enciclopediche. In pratica su Wikileaks può pubblicare chiunque sia riuscito a strappare documenti segreti a questa o a quella istituzione. Quanto ai documenti che tanto fanno parlare in questi mesi, si tratta di messaggi – inviati al Dipartimento di Stato dalle ambasciate americane di tutto il mondo – in gran parte provenienti da un database istituito all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001. Ironia della sorte, lo scopo del database era quello di favorire lo scambio di informazioni tra i diversi settori della diplomazia e dei servizi di sicurezza, visto che c’erano state allora molte critiche proprio per la mancanza di informazioni condivise. Peraltro, si tratta di documenti riservati sì, ma non di particolare sensibilità. Tanto è vero che hanno prodotto molto chiasso mediatico e notevoli imbarazzi, ma hanno avuto effetti politici praticamente irrilevanti, almeno nel breve termine.
Quello che è invece rilevante è la pretesa di definire questi documenti come un modo di smascherare il potere, di fare un’operazione-verità. Ma possiamo davvero definire verità il mettere in piazza opinioni scritte in privato? O stabilire la correttezza di un governo o di una amministrazione dal commento più o meno felice espresso da un suo rappresentante in una precisa circostanza? Tanto per fare un esempio: chiunque si sarà trovato, parlando con un amico, un genitore, un parente, un collega ad esprimere giudizi o pareri su questa o quella persona, o su questa o quella situazione, anche senza alcuna malizia o cattiveria. Cosa succederebbe se qualcuno mettesse in pubblico la registrazione di quella conversazione? Certamente provocherebbe situazioni imbarazzanti, forse manderebbe all’aria qualche rapporto di amicizia o qualche affare, ma potremmo dire che si tratta di una operazione-verità? Che quella persona o quella situazione è definita da quel particolare?
No, spiattellare pubblicamente i particolari di un colloquio o di una lettera non può essere definita verità: è soltanto un moralismo che, come tale, è molto facile venga usato per secondi fini. Troppo facile infatti scegliere un particolare da rivelare per dare l’immagine voluta di una persona o di un evento. Non bisogna neanche andare a scomodare Wikileaks, questa è la mentalità che sta dietro alla pubblicazione di intercettazioni telefoniche private di cui i giornali italiani hanno riempito le loro pagine in questi anni: conversazioni che nulla avevano a che fare con la consumazione o lo smascheramento di reati, ma che hanno distrutto l’immagine di persone, la loro vita, hanno distrutto famiglie. E magari, dopo qualche mese quelle indagini si sono sgonfiate senza che nessuno sia stato chiamato a rispondere per quanto accaduto. Certo quelle conversazioni erano vere, quei fatti privati erano reali, ma non costituivano la verità di quella persona o di quella situazione.
Perché la verità, anche nell’informazione, è sempre legata al bene: al bene della persona o al bene comune. O, per dirla in altri termini, la verità è legata al destino della persona. Vale a dire che laddove la persona è distrutta, là non c’è verità. Dove la vita delle persone viene messa in pericolo – pensiamo a soldati e agenti presenti in luoghi di conflitto, ma anche alla sicurezza del lavoro – là non c’è verità. Dove il bene comune, la sicurezza di un Paese, vengono messi in pericolo non ci si può appellare ad alcuna operazione- verità. È invece una mistificazione, una vera operazione-menzogna, che si presta infatti a strumentalizzazioni e speculazioni di ogni tipo. Tanto è vero che le risibili “rivelazioni” di Wikileaks sono state cavalcate da giornali e politici di diversi Paesi – non solo l’Italia – per ottenerne dei tornaconti politici.
Un esempio evidente viene anche da quella che alcuni hanno definito la “doppia morale” del New York Times, il quotidiano americano che più di altri ha guidato il circo Wikileaks. Giusto un anno fa, infatti, scoppiava il Climategate, ovvero lo scandalo dei dati truccati sul clima emerso dalla pubblicazione di migliaia di mail private scambiate da diversi scienziati che avevano interesse a dimostrare la teoria del riscaldamento globale. Quelle mail, che in questo caso sì smascheravano una grande truffa ai danni dell’opinione pubblica e degli Stati, finirono anche su Wikileaks. Ma in quell’occasione il New York Times pubblicò un editoriale giustificandone la non pubblicazione con il fatto che sarebbe stato “immorale” rendere pubbliche lettere che erano private. In questa occasione, invece, lo stesso quotidiano ha pubblicato un editoriale per giustificare esattamente il contrario, ovvero l’ampio risalto dato a messaggi non solo destinati a restare privati, ma anche senza contenuti davvero rilevanti.
Non sappiamo cos’altro verrà fuori dai file di Wikileaks, l’unica cosa certa è che siamo di fronte a una grande operazione-menzogna. E istigare a rubare documenti e conversazioni per il solo gusto di distruggere la reputazione di una persona o per far “saltare” le istituzioni porta dritti alla barbarie, alla distruzione della società.
IL TIMONE N. 99 – ANNO XIII – Gennaio 2011 – pag. 18 – 19