Chiedeva ai suoi combattenti il rispetto per le donne e proibiva la bestemmia. Confidava in Dio e amava la Madonna. Morì misteriosamente sotto le ruote di un camion nel pieno della “caccia al fascista”, scatenata dai comunisti dopo il 25 aprile 1945.
Morto all’indomani della Liberazione, all’età di 24 anni non ancora compiuti, Aldo Gastaldi, nome di battaglia «Bisagno», medaglia d’oro al valor militare, il più luminoso ed eroico esponente della Resistenza sull’Appennino ligure-emiliano, era animato da una profonda, sentita e vissuta fede cattolica. Quelli riassunti in questo articolo sono gli aspetti forse meno conosciuti della sua eroica testimonianza. Incominciamo dal mitico «codice di Cichero» (dal nome della località sopra Chiavari nella quale «Bisagno», con i suoi soldati, diede inizio alla Resistenza, all’indomani dell’8 settembre 1943, dopo avere portato con sé le armi della caserma del Genio dove prestava servizio come ufficiale). Tra i punti principali del «codice», c’erano i seguenti:
– è severamente proibito toccare le donne che non lo desiderano;
– sono rigorosamente vietati bestemmie e turpiloquio.
«Bisagno», da sempre cattolico convinto e osservante, scrisse in proposito, in una direttiva ai suoi uomini: «La bestemmia è, per chi crede, una abiezione e, per chi non crede, una stupida inutilità. In ogni caso è simbolo di pervertimento». Sempre in ordine alla fede religiosa di Gastaldi, vale riportare il seguente aneddoto riferito dal figlio del partigiano Roberto Pisotti, nella cui abitazione a Barchi, in alta Val Trebbia, provincia di Piacenza, «Bisagno» si era recato il giorno di Natale 1944. Vicino alla casa di Pisotti c’era una piccola fontana completamente ghiacciata. Lui voleva andare a Messa e ricevere la Santa Comunione. Ruppe il ghiaccio e si lavò il busto e il viso per presentarsi pulito alla Messa di Natale.
Non meno significative le sue raccomandazioni ai compagni di contenere la violenza bellica cercando di risparmiare la vita del nemico e la più volte riaffermata intenzione di riappacificarsi con i fascisti all’indomani della fine delle ostilità.
Nel giugno 1944, Gastaldi, alla testa dei suoi uomini, assaltò la caserma di Rovegno della GNR prelevando armi, esplosivi e indumenti, senza colpo ferire. A Ottone decise di liberare da solo alcuni dei suoi uomini fatti prigionieri dai fascisti, proprio per evitare che si verificasse una strage. Dopo avere strisciato pancia a terra nel campo che i custodi-carcerieri utilizzavano come latrina all’aperto (e che perciò nessuno sorvegliava), tornò alla propria base sporco in maniera indecente, ma con i compagni liberati.
«L’arco portante della costruzione umana di Aldo» ricorda Dino Lunetti, suo cugino e suo compagno di guerra nella Resistenza, «era la fede cristiana. Aldo credeva, con profonda convinzione, in Dio essere supremo da cui tutto e tutti dipendono, lui per primo; credeva in un Dio di amore di cui si sentiva figlio. In una lettera inviata il 2 maggio 1941 ai genitori aveva scritto: “Sono ormai convinto che un Supremo Fattore, tanto invocato specialmente da Te, Mamma, venga a regolare i miei avvenimenti, tutti i miei avvenimenti e quelli della nostra famiglia”».
Il carteggio con i genitori è la prova documentale della fiducia che «Bisagno» nutriva in Dio. Aveva capito che la vera forza di un uomo non sta nell’accanirsi a perseguire obbiettivi propri, quanto nel saper accettare con fiducia la volontà di Dio, anche quando si manifesta in aperto contrasto con quella umana: «È necessario», scrisse in un’altra lettera, «sapersi contenere, saper prendere tutte le cose dal lato buono, e, soprattutto, saper confidare in Dio». E ancora: «Carissimi, se a Genova facevo una vita regolare, qui la faccio regolarissima. Credo di essermi tolto quel poco di ingiusto che ancora era in me». Nel maggio ‘42 dovette affrontare una fastidiosa malattia. Uscitone, scrisse: «Il resto del mese l’ho passato abbastanza bene e ne ringrazio la nostra Madre e Patrona, nonché Signora di questo gentile e ormai trascorso mese di maggio». Religione e poesia.
«È nella fede di mio cugino», ricorda ancora Dino Lunetti, «che si può concepire la straordinarietà della sua figura. Solo una fede eccezionale può guidare un uomo a imprese eccezionali. Chi l’ha conosciuto ne ricorda l’indomita tenacia: ebbene, essa poggiava sull’assoluta certezza che, agendo rettamente, l’aiuto di Dio non gli sarebbe mai venuto meno, per un risultato finale sempre e soltanto buono, al di là di ogni apparenza. Scriveva ai genitori il 3 agosto del 1943: “Mi auguro che tutto prosegua per il meglio; Iddio fin qui mi ha guidato, e sarà sempre la mia sicura Guida”. Siamo di fronte alla riaffermazione di un rigore morale elevato a stile di vita».
Nella squadra che era stata distaccata a sua protezione c’era anche Sergio, un mitragliere che in montagna per tutti era “Fiore”.
In un giorno in cui Lunetti era andato a far visita al cugino, ebbe modo di notare che Sergio si era intrattenuto molto a lungo con «Bisagno». Dal colloquio era uscito visibilmente commosso, tutto rosso sulle guance e con le lacrime agli occhi.
«Lì per lì», ricorda Lunetti, «feci finta di niente, ma fui colpito da quel legame misterioso e profondo fra i due. Sergio era un bel ragazzo, alto e fiero, molto sicuro dei suoi mezzi, al punto che fin lì aveva pensato di bastare a sé stesso. Per dirla in breve: era un ateo convinto, e tale convinzione gli veniva direttamente dalla famiglia. Orbene, un mese dopo, la notte stessa in cui “Bisagno” poté lasciare Casone, ci fu un’incursione a tenaglia degli Alpini della “Monterosa” che portò alla cattura dell’intera squadra di “Fiore”, a eccezione del portamunizioni. Poco tempo dopo, otto su nove di quei prigionieri furono passati per le armi a Chiavari. Fra di essi anche “Fiore”, il quale, con meraviglia di tutti ma non mia, si seppe poi che, prima di essere fucilato, aveva chiesto e ottenuto il Battesimo. Morì gridando “Viva “Bisagno”!».
Questo il capo partigiano che morì misteriosamente sotto le ruote di un camion nel pieno della caccia al fascista che si era scatenata ad opera dei comunisti all’indomani della Liberazione, una caccia che egli aveva condannato in ogni maniera, giudicandola ributtante e demoniaca.
Bibliografia
Luciano Garibaldi (con Riccardo Caniato, Luigi Confalonieri, Alessandro Rivali), I Giusti del 25 Aprile. Chi uccise i partigiani eroi?, Ares, 2005.
Testo coraggioso, pubblicato a 60 anni dalla Liberazione, racconta la vita eroica e la misteriosa morte di tre protagonisti della guerra partigiana, scomodi e perciò dimenticati in fretta: Aldo Gastaldi «Bisagno», comandante della leggendaria Divisione «Cichero» che combatté contro fascisti e tedeschi sull’Appennino ligure-emiliano, Ugo Ricci, «il Capitano», l’eroe della Resistenza in Val d’Intelvi, ed Edoardo Alessi, «Marcello», comandante della «Prima Divisione Alpina Valtellina». Tutti e tre ufficiali del Regio Esercito e uniti da una comune e intensa fede religiosa, puntavano a una pronta riconciliazione col nemico sconfitto: se fossero vissuti avrebbero impedito che venisse sparso il «sangue dei vinti». Per questo due di essi furono uccisi nel momento culminante della loro battaglia (da chi? dai fascisti o dai comunisti?) e il terzo, la medaglia d’oro Aldo Gastaldi, ruzzolò, o fu fatto ruzzolare, sotto le ruote di un camion, mentre riportava a casa i ragazzi che avevano combattuto al suo fianco sulle montagne.
IL TIMONE – N. 43 – ANNO VII – Maggio 2005 – pag. 28-29