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13.12.2024

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Il commissario che doveva morire
28 Febbraio 2014

Il commissario che doveva morire

Una fiction Tv ricostruisce i fatti relativi a gravi episodi di violenza degli Anni ’70. Si riaprono ferite di oltre 40 anni fa, che i giovani non conoscono. Proviamo a raccontarle di nuovo

L’indubbio successo di pubblico (una media di 6-7 milioni di telespettatori per ciascuna delle due puntate) e la notevole risonanza mediatica (su giornali, televisioni e sul web) che hanno caratterizzato la fiction televisiva Gli anni spezzati. Il commissario, andata in onda la prima settimana di gennaio su Rai Uno, dimostrano che la direzione della TV di Stato ha centrato il bersaglio. Che, nel caso specifico, è consistito nel riproporre al grande pubblico, e soprattutto ai giovani che di fatto la ignorano, una delle pagine più drammatiche e controverse della storia d’Italia della seconda metà del secolo scorso: la pagina degli Anni ’70, passati alla storia come “gli anni di piombo”, che videro il sacrificio di oltre 450 innocenti (poliziotti, magistrati, giornalisti, attivisti politici, dirigenti d’azienda assassinati con il colpo alla nuca, o semplici cittadini venutisi a trovare nei luoghi dove furono fatti esplodere micidiali ordigni).
La trilogia televisiva ha raccontato tre vicende-chiave di quegli anni: l’assassinio del commissario Luigi Calabresi (padre di tre bambini, ucciso all’età di 35 anni, a Milano, nel 1972), il rapimento del giudice Mario Sossi a opera delle Brigate Rosse (Genova, 1974), la famosa “marcia dei 40 mila” (Torino, 1982) che pose fine alle infiltrazioni terroristiche nei sindacati degli operai della Fiat. Le prime due fiction sono state liberamente ispirate a due miei lavori: il mio libro sul commissario Calabresi e quello, scritto a quattro mani da me e da Mario Sossi, dal titolo Nella prigione delle Brigate Rosse.
Con riferimento alla vicenda Calabresi, ritengo di poter affermare che la ricostruzione di quella vicenda, fatta nel mio libro e ripresa dalla fiction, è stata puntigliosa e attenta. Io a quei tempi ero caporedattore del Corriere Mercantile, quotidiano della sera di Genova e – appena appresa la notizia dell’assassinio di Calabresi – scrissi un articolo di prima pagina, che poi riporterò nel mio libro, e nel quale indicavo i veri responsabili del delitto: tutti quei giornalisti che, dopo la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, avevano crocifisso Calabresi, indicandolo come responsabile di avere scaraventato Pinelli dal quarto piano della Questura.

Che cosa accadde?

I fatti, in estrema sintesi. 12 dicembre 1969: bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana (Milano), 17 morti, 80 feriti. Giorno seguente: arresto dell’anarchico Pietro Valpreda, quale presunto autore dell’attentato, e fermo di altri anarchici tra cui Giuseppe Pinelli. 14 dicembre: Pinelli precipita dalla finestra dell’ufficio di Calabresi e muore. In quel momento, Calabresi non è nel suo ufficio, ma vi sono quattro sottufficiali di PS e un sottotenente dei Carabinieri. La versione dei presenti è: suicidio. Ossia: Pinelli, un galantuomo alieno da ogni violenza, dopo che il commissario Calabresi gli aveva detto (ma non era vero) che Valpreda «aveva parlato» (cioè aveva ammesso di aver collocato l’ordigno), preso dalla disperazione si era gettato nel vuoto.
Da quel momento, iniziò una serie di insinuazioni di stampa che culminerà in una vera e propria campagna diffamatoria e si allargherà sulle piazze ad opera di movimenti di estrema sinistra come Lotta Continua. Obiettivo: Luigi Calabresi, indicato come assassino di Pinelli. In quel mio articolo scritto il giorno dell’omicidio Calabresi, feci nomi e cognomi e intitolai il pezzo “I mandanti morali”, cioè tutti quei signori che avevano sbeffeggiato Calabresi, chiamandolo “il commissario Cavalcioni”. Fui forse il primo a parlare durissimamente di quella campagna mediatica che era stata la vera matrice del delitto Calabresi. Per anni Gemma Capra, la vedova del commissario, non rilasciò interviste ad alcuno. Lo fece con me nel 1980, quando ero redattore capo di Gente. Fui il primo a convincerla a parlare. Mi disse che suo marito sospettava che, per quanto riguardava la strage di piazza Fontana, i manovali fossero di sinistra, ma i cervelli di destra, i quali avevano insomma tutto l’interesse a impressionare l’opinione pubblica, per togliere così voti al Pci.
Questa strategia i comunisti la capirono in ritardo, poi il segretario del Pci Enrico Berlinguer intervenne e diede praticamente carta bianca al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. E la “pulizia” incominciò quando i carabinieri sgominarono, in un conflitto a fuoco in via Fracchia a Genova nel 1979, la colonna genovese, con il brigatista Riccardo Dura e altri.

La campagna d’odio
Ma, per tornare alla campagna di stampa che si trasformò in un autentico calvario per Calabresi, ricorderò che – valutazione fatta da Indro Montanelli – il 90 per cento della stampa italiana era schierato per la colpevolezza del commissario. E non solo la stampa. Libri di grande successo, come Una finestra sulla strage, di Camilla Cederna, e opere teatrali che facevano il pieno, come Morte accidentale di un anarchico, di Dario Fo, continuavano a gettare fango sul giovane funzionario di polizia, che invano chiedeva ai suoi superiori l’autorizzazione a querelare non soltanto Lotta Continua (che lo chiamava sistematicamente «assassino» e lo minacciava apertamente di morte), ma anche – come scrissi in quell’articolo poche ore dopo il suo omicidio – «coloro che, subdolamente e con più veleno, lo indicavano quale assassino di Pinelli con abili giri di parole. Contro coloro che, come Camilla Cederna, anziché essere perseguiti dalla giustizia per la gravissima opera di sobillazione morale che andavano compiendo, ricevevano l’insperata pubblicità di eleganti e leziose presentazioni, in una nauseante atmosfera di salottiera civetteria e di parrucchini settecenteschi, tra dame con ventagli e tirabaci, e volterriani scrittori dalla toscana arguzia sempre pronta sul labbro nobilmente increspato da un sussiegoso sorriso di superiorità».
Quando la vedova di Pinelli, Licia, denunciò per omicidio del marito tutta la dirigenza dell’Ufficio politico della Questura milanese, la grande maggioranza della stampa presentò l’iniziativa con un tale rilievo (titoli a nove colonne in prima pagina) da orientare l’opinione pubblica in senso decisamente colpevolista.
Ai cronisti politici, agli editorialisti, agli elzeviristi, si aggiunsero le incessanti iniziative del “Movimento nazionale giornalisti democratici”, sorto in seguito ai fatti di piazza Fontana, e del “Comitato dei giornalisti per la libertà di stampa e la lotta contro la repressione”, che divenne editore del “BDIC” (Bollettino di Informazione Democratica), fonte inesauribile, in quei mesi, di autentica disinformazione, come dimostra questa sua fantasiosa versione della morte di Pinelli, sbrigativamente quanto anonimamente attribuita a «uno dei presenti»: «Pinelli intuisce che qualcuno, infiltratosi fra gli anarchici, ha fornito nomi, fatti e date a chi lo sta interrogando. Invece di tacere, parla, s’indigna, chiede che tutto quanto si sta dicendo sia verbalizzato. Fra i poliziotti interroganti, chi doveva capire la stessa cosa che Pinelli aveva capito, la capì. Poi partì un colpo (di karaté, come hanno scritto l’“Avanti!” e “Vie Nuove”, oppure d’altra natura) che fece stramazzare Pinelli sulla sedia, provocandogli la lesione bulbare. Fu affacciato alla finestra forse per fargli prendere aria. Probabilmente il corpo fu appoggiato, dato che non si reggeva da solo. E così scivolò giù».


Gli effetti della campagna di stampa contro Calabresi

«Ero convinto», scriverà Leonardo Marino nel suo libro La verità di piombo, edito nel 1992, «che l’anarchico Pinelli fosse stato ucciso nella questura di Milano da Calabresi o comunque per ordine di Calabresi. Quanto all’attentato del 12 dicembre 1969, ero certo che non potevano averlo fatto gli anarchici. La campagna di stampa, poi, era tambureggiante e convincente, almeno per noi. Ora so che Calabresi era solo un poliziotto che faceva il suo mestiere. Ma allora, per noi, il poliziotto “buono” non esisteva. Tanto più Calabresi, che ci avevano insegnato a odiare non solo come l’assassino di Pinelli, ma anche come il persecutore dei compagni, l’organizzatore della repressione poliziesca contro la sinistra extraparlamentare di Milano, l’agente della Cia. Fondamentale e determinante, nel creare in noi questa convinzione, questo odio, fu l’atteggiamento dei grandi nomi della cultura del tempo. Non passava settimana che L’Espresso non pubblicasse pagine intere su Calabresi,contro Calabresi. Lo attaccavano a fondo l’Unità, Vie Nuove, l’Avanti! Leggevamo quegli articoli, e non era come leggere Lotta Continua, di cui sapevamo che era un foglio di propaganda e che, per fare propaganda, poteva anche esagerare un po’. Ma il vedere le stesse cose scritte sui giornali borghesi, sui grandi quotidiani, ci faceva dire: “Ma allora è tutto vero!”». «In sede, leggevamo le cronache del processo di Milano che Calabresi aveva intentato per diffamazione contro il direttore responsabile di Lotta Continua. L’impressione che si ricavava leggendo quelle cronache era di trovarsi di fronte non certo a un innocente, ma a un mascalzone in trappola. Quando poi uscì su L’Espresso, giornale che in sede leggevamo tutti, l’“appello degli Ottocento”, firmato da grandi pensatori come il professor Norberto Bobbio, grandi registi come Federico Fellini, scrittori e poeti come Pier Paolo Pasolini, uomini politici e grandi combattenti antifascisti come Umberto Terracini, leggere quei nomi sotto un appello che chiedeva l’allontanamento di Calabresi dalla polizia (e dei giudici che lo avevano assolto in istruttoria dalla magistratura) e lo definiva apertamente “commissario torturatore” e “responsabile della morte di Pinelli”, ebbe per noi tutti un’importanza enorme. Nomi di quel calibro scendevano in piazza contro Calabresi? Era dunque lui l’obiettivo principale. Come se, togliendo di mezzo lui, si fosse fatta la massima operazione possibile di giustizia». Infatti, Marino accettò di mettersi al volante della vettura che avrebbe condotto sul posto, ossia davanti all’abitazione di Calabresi, il killer Ovidio Bompressi su mandato di Giorgio Pietrostefani e “nihil obstat” di Adriano Sofri.
Nel 2006, quando la Albatross Entertainment di Alessandro Jacchia e Maurizio Momi mise in cantiere il progetto, la signora Gemma, per la quale quindici anni prima avevo curato il libro Mio marito il commissario Calabresi, non diede parere favorevole alla realizzazione della fiction. La diedi invece io, che su tutta la vicenda legata a Calabresi, dalla strage di piazza Fontana fino all’omicidio del commissario, ero in possesso di tantissimo materiale. In gran parte l’avevo ottenuto da Enzo Tortora, mio amico fin dagli anni genovesi. Enzo, a quel tempo, era fuori dalla Rai ed era giornalista del Resto del Carlino e della Nazione. Aveva seguito il processo contro Lotta Continua e aveva sempre difeso Calabresi. Aveva scritto che il commissario era un perseguitato, e per questo era stato perfino aggredito e pestato dai lottacontinuisti. Tortora si era rivolto all’avvocato difensore di Calabresi, Michele Lener, che gli aveva fornito tutti i fascicoli processuali. Aveva in animo di scrivere, con tutto quel materiale, un libro. Ma nel frattempo si ammalò. Era stato colpito da ben due tumori, conseguenza della persecuzione giudiziaria cui era stato sottoposto, e lasciò tutta la documentazione a me.
Da quelle carte, e dai miei ricordi, il libro. Dal mio libro, la fiction. Per la quale il riconoscimento da me più gradito è stato il commento di Mario Calabresi: «La verità storica sulla figura di mio padre è stata rispettata».   

Per saperne di più…

Luciano Garibaldi, Gli anni spezzati. Il commissario Luigi Calabresi medaglia d’Oro, Ares, 2014.
Mario Sossi con Luciano Garibaldi, Gli anni spezzati. Il giudice. Nella prigione delle br, Ares, 2013.
Leonardo Marino, Così uccidemmo il commissario Calabresi, Ares, 1999. Leonardo Marino, La verità di piombo. Io, Sofri e gli altri, Ares, 1992.

IL TIMONE – Marzo 2014 (pag. 22 – 24)             

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