Riflessione a bocce ferme sul tentativo di sfratto del crocefisso dalla scuola di Ofena. Più che la fede poté la paura. Ma anche segnali positivi dalla reazione popolare.
Un banalissimo fatto di cronaca locale riporta al centro della scena l’Uomo del Crocefisso. In una piccola scuola d’Abruzzo, a Ofena, il crocefisso viene sfrattato per ordine di un magistrato, che accoglie l’istanza di un italiano convertito all’Islam. Le reazioni degli opinionisti e dei politici, ma soprattutto della gente semplice, non si fanno attendere. Il caso costringe a guardarsi dentro, e a confrontarsi con una serie di questioni concrete: che rapporto esiste tra la propria fede e la vita pubblica? Che cosa significa vivere in uno stato laico? e che rapporto si deve instaurare con gli immigrati di religione musulmana? Perché in un Paese ampiamente secolarizzato come l’Italia del terzo millennio tante persone hanno reagito rivendicando la presenza del crocefisso in un luogo pubblico? Solo un riflesso pavloviano, un legame sentimentale con un oggetto che ha perso il suo significato più profondo? O invece il segno di una passione autentica che rimane viva, come brace nascosta sotto un manto di cenere che si chiama indifferenza? Come ha scritto il vescovo di Ferrara, Carlo Caffarra, “la questione è molto più seria di quanto possa apparire a prima vista”.
La paura dei laiciUn primo dato sorprendente riguarda la condotta tenuta da molti laici, che hanno difeso la presenza del crocefisso nei luoghi pubblici. Spesso lo hanno fatto con argomenti pieni di buon senso: il crocefisso come simbolo della civiltà occidentale, come elemento indispensabile per comprendere l’arte e la storia dell’occidente; come segno di amore e di perdono. Ma queste dichiarazioni non possono farci dimenticare che fino a qualche tempo fa, quella stessa cultura laicista avrebbe molto volentieri espulso la croce non solo da scuola ma da ogni ambito pubblico. L’attacco al crocefisso era così pressante da indurre qualche anno fa – dunque, molto tempo prima dei fatti di Ofena – Giovanni Paolo II a pronunciare in un suo discorso queste ferme parole: “Tante cose possono essere tolte a noi cristiani. Ma la croce come segno di salvezza non ce la faremo togliere. Non permetteremo che essa venga tolta dalla vita pubblica”. Lo sfratto esecutivo al crocefisso appariva come la naturale conseguenza di un pensiero che predica il totale divorzio tra la fede e la vita quotidiana, e che vorrebbe relegare l’avvenimento cristiano al silenzio delle sagrestie e delle chiese, privandolo di qualsiasi rilevanza culturale. Dunque, perché questa improvvisa riscoperta del valore del crocefisso? Crediamo che molto dipenda dalla paura: la paura di un Islam che avanza e che non conosce l’idea di laicità dello Stato, e che potrebbe in pochi anni mettere in crisi il quieto vivere del relativismo nichilista in cui galleggia buona parte dell’Europa contemporanea. Più che la fede, dunque, poté la paura.
Il crocefisso: disinnescato o detestato?
Non è un caso che tra gli argomenti usati per affermare che i crocefissi devono rimanere al loro posto, molti provocano una imbarazzante “riduzione” del vero significato di quell’oggetto: si parla di segno dell’identità nazionale, di simbolo di una civiltà, di memento dell’ingiustizia degli uomini, e di molte altre cose anche vere. Ma, così dicendo, si getta un velo imbarazzato sulla reale identità del protagonista della scena: il Figlio di Dio che si fa uomo e va a morire sulla croce per la salvezza del mondo. E’ come se si pretendesse di togliere consistenza alla presenza del crocefisso, per trasformarlo in una bella icona a due dimensioni che rappresenta solo un sentimento comune, ma certamente non un fatto realmente accaduto.
D’altra parte, c’è anche un fronte anticattolico aggressivo e ben più pericoloso, che attraverso una strana alleanza con l’Islam vorrebbe togliere di mezzo il crocefisso per assestare un colpo definitivo alla presenza nella società della Chiesa cattolica. E’ un’idea antica che vede spesso intellettuali e movimenti atei o gnostici anticattolici legarsi anche a confessioni cristiane pur di “far dispetto” al Papa.
Le ragioni del buon senso e i sentimenti della gente
E’ però vero che è stata proprio la gente, con un moto che è apparso spontaneo e per nulla pilotato dai mass media, a reagire con durezza al tentativo dello sfratto di Cristo. Sarebbe ingiusto – e anche un po’ snobistico – ignorare quanto di buono vi sia in questa levata di scudi. Si dirà: molti “apologeti del crocefisso a scuola” non ascoltano la Chiesa e ignorano le verità fondamentali del Catechismo. E’ vero. Ma non dobbiamo dimenticarci che nel cuore di ogni persona questo istintivo “giù le mani” dal segno della fede cristiana potrebbe essere il sintomo di una più misteriosa, pur primitiva e inconsapevole, risposta d’amore all’amore che quella croce irradia sul mondo. Quasi un viaggio di ritorno a una stagione della vita (e della storia) che si credeva sepolta per sempre, e che invece riemerge inaspettata: gli insegnamenti ricevuti in parrocchia da bambini, l’esempio della fede semplice ma robusta dei genitori o dei nonni; la nostalgia per una verità bella e grande della quale ogni cuore avverte un bisogno invincibile. Lo sguardo d’amore di Gesù di Nazaret in croce trafigge ogni uomo, anche quello che appare più insensibile e più lontano dalla fede. Ed ecco perché il desiderio di strapparlo dal muro della scuola provoca, prima ancora che un vulnus alla fede, un vero e proprio tracollo della ragione umana. Molti anni fa, Chesterton scrisse un’opera che s’intitolava “La sfera e la croce”, nella quale un certo personaggio si è convinto che il segno del cristianesimo sia un simbolo di barbarie e irragionevolezza, una mostruosità: “Egli cominciò col bandire il crocifisso da casa sua, dal collo della sua donna, perfino dai quadri… Poi avrebbe voluto abbattere le croci che si alzavano lungo le strade del suo paese, che era un paese cattolico romano. Finalmente s’arrampicò sopra il campanile di una chiesa, ne strappò la croce e l’agitò nell’aria, in un tragico soliloquio sotto le stelle. Una sera, la follia lo ghermì di botto: s’era fermato, fumando la pipa, di fronte a una lunghissima palizzata. Ma egli credette di vedere, come in un fulmineo cambiamento di scena, la lunga palizzata tramutata in un esercito di croci legate l’uno all’altra… Tutte le cose che lo circondavano avevano ormai l’aspetto del simbolo maledetto: tutto era ormai fatto di croci. L’indomani lo trovarono nel fiume”. Si inizia con lo spezzare la croce, ma si finisce con il distruggere il mondo abitabile, e con l’odiare se stessi. Il Novecento sta tutto racchiuso dentro questo paradosso terribile.
RICORDA
“Il problema è che la fede oggi viene gestita, non viene vissuta. E’ come se fosse messa nel cassetto. Questo è ciò che manca ai cattolici. Ognuno dovrebbe invece sentirsi deputato ad annunciare Gesù Cristo agli altri. Compresi i musulmani che incontriamo nella nostra vita. Io direi che l’esposizione del crocifisso deve far parte di un modo di essere cristiani dove la testimonianza sociale e pubblica è inscritta nel nostro Dna. Ovunque ci troviamo – nell’università, nel posto di lavoro, nei giornali, in famiglia – dobbiamo testimoniare la fede.”
(PADRE LIVIO FANZAGA, Il Crocifisso scomodo, Piemme 2003).
BIBLIOGRAFIA
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dominus Iesus, 6 agosto 2000.
CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, nn. 440, 571, 599-618.
G.K. CHESTERTON, Ortodossia, Morcelliana, 1995
PADRE LIVIO FANZAGA con A. GNOCCHI e M. PALMARO, Il crocefisso scomodo, Piemme 2003.
IL TIMONE – N. 29 – ANNO VI – Gennaio 2004 – pag. 6 – 7