Cardinale Zen, quanti sono gli “eroi senza nome” della Chiesa cinese?
«Qualcuno ha provato a fare questo calcolo, ma mi sembra impossibile dare un numero preciso. L’unica cosa certa è che sono stati tantissimi: molti sono morti in prigione, nei campi di concentramento e ai lavori forzati. Tanti altri sono morti per gravi malattie contratte durante la prigionia. Ci sono anche quelli sopravvissuti a 20-30 anni di prigionia e torture, anche questi sono martiri. È una forma di martirio moderno: non c’è la crocifissione o la morte violenta immediata, ma una sofferenza lunghissima, consumata in tanti anni di isolamento. Ci sono giovani meno che ventenni entrati in carcere o in campo di concentramento e usciti quando erano ormai anziani e malandati. Penso ai tanti giovani della Legione di Maria, andati in carcere a Shanghai negli anni ’50, i laici ancor più di preti e suore, che non hanno una famiglia cui pensare.
Eppure ho visto tanti di loro uscire dalle prigioni così felici, così sereni: una grande testimonianza. Ma non dimentichiamo anche le sofferenze delle famiglie: immaginatevi dei genitori che si vedono strappare via un figlio, senza neanche più sapere dov’è e cosa ne è di lui».
Spesso si sente dire che oggi la situazione è migliore…
«Dipende da cosa si intende. Sicuramente il regime cinese – oggi che ha maggiori scambi con l’estero ed è più osservato – deve stare maggiormente attento nella persecuzione, è meno brutale. Ad esempio, i vescovi che vengono arrestati magari non vanno in prigione ma in altri luoghi isolati, la detenzione è meno lunga. Ciò non toglie che i due vescovi di Baoding siano scomparsi e non si sappia nulla di loro. Direi però che l’evoluzione più importante è quella interna alla Chiesa ufficiale, con una comunione sempre più chiara con il Papa. E si vede che quando i preti sono uniti anche il regime deve cedere, come dimostra la nomina dei vescovi di Shanghai e Xian: indicati dal Papa, ma formalmente eletti dal clero locale, così che il governo non ha potuto dire nulla».
Lei parteciperà alla Giornata del Timone, il prossimo 27 maggio, dove le sarà consegnato il Premio “Defensor Fidei”. Cosa significa per lei essere il “difensore della fede”?
«Onestamente mi chiedo ancora come mai mi avete assegnato un premio così importante e impegnativo. Per quel che riguarda la Cina posso solo dire che non sono stato io a difendere la fede: la fede è stata difesa dai nostri martiri. Io mi sono
trovato a svolgere un lavoro importante perché sono stato il primo ad essere autorizzato a insegnare nei seminari cinesi, gestiti dalla Chiesa ufficiale. Ho iniziato nel 1989 a Shanghai, poi dal 1996 ho insegnato nei seminari di Xian, Wuhan, Pechino e tanti altri, praticamente ho potuto incontrare cattolici di ogni parte della Cina. Altri sacerdoti di Hong Kong e Taiwan hanno fatto lo stesso. Questa è stata senz’altro un’esperienza molto importante per ricostituire l’unione con Roma.
Anche noi avevamo idee preconcette: l’idea di una Chiesa clandestina fedele e una Chiesa ufficiale ribelle. Invece ci hanno accolto con grande gioia, con grande desiderio di camminare insieme. E a lungo andare si vedono i frutti di questo lavoro: il senso della Chiesa si fortifica, ormai l’80% dei vescovi patriottici sono in comunione con Roma, e si respira ovunque la gioia di essere cattolici, con assoluta fedeltà al Papa».
Anche nella sua diocesi di Hong Kong, lei è spesso sotto i riflettori per le sue posizioni ferme a difesa della libertà e della democrazia.
«A Hong Kong la situazione ovviamente è diversa. Non abbiamo mai avuto la persecuzione come nel resto della Cina, qui il nemico principale è il secolarismo. Malgrado ciò la nostra Chiesa di Hong Kong mantiene una sua vitalità e manteniamo
una media di 2mila battesimi l’anno. Dopo il 1997, con il ritorno di Hong Kong alla Cina, la situazione è cambiata e la Chiesa si è trovata a dover difendere i più deboli, i poveri. Del resto è la Chiesa che ci insegna a prenderci cura di tutto l’uomo, siamo chiamati a mettere il lievito di umanità nei rapporti sociali».
Lei si è creato la fama di essere un duro, che si confronta apertamente con il regime cinese senza tanti giri di parole. È questa la strategia giusta per trattare con Pechino?
«Non ho mai premeditato sul come agire. In realtà sono intervenuto duramente su due questioni: la prima per difendere la canonizzazione dei martiri cinesi, avvenuta il 1° ottobre 2000. Il governo si era inventato una lettera firmata da tutti i vescovi cinesi che contestavano questa canonizzazione. Ma era falso, sapevo che la stragrande maggioranza dei vescovi non la condivideva, così sono intervenuto duramente per smascherare questo tentativo di screditare il Papa.
L’altro mio intervento è sulla questione della democrazia, più precisamente sulla libertà religiosa. Pechino ha già violato apertamente la Basic Law (la mini-Costituzione di Hong Kong firmata congiuntamente da governo britannico e cinese, che garantisce il processo di democratizzazione di Hong Kong per almeno 50 anni, ndr) e cercato di intaccare la libertà religiosa. Noi cattolici, pur minoranza, siamo diventati padri di tutto il popolo, un punto di riferimento: così è nata la manifestazione che ha portato in piazza mezzo milione di cittadini».
E ora che è cardinale come cambia il suo ruolo?
«Non so quale uso il Santo Padre voglia fare di me. A gennaio prossimo compirò 75 anni e ho già mandato la lettera di dimissioni al Papa, che ha risposto di rimanere “fino a quando sarà provveduto altrimenti”. Ma non so quando sarà provveduto altrimenti, e se sarò più utile qui a Hong Kong oppure a Roma. Comunque, se il Papa mi vuole a Roma sono pronto a partire anche subito. Se vuole che resti a Hong Kong lo stesso».
Lei crede che la Cina possa presto “rassegnarsi” ad aprire un dialogo vero con la Santa Sede, e far cadere i suoi pregiudizi?
«Credo di sì. Oggi la Cina manda molte persone all’estero, del governo o meno. Pian piano si rendono conto che nel resto del mondo i singoli Paesi non hanno alcun problema ad accettare che il Papa nomini i vescovi, che questo non contrasta con l’amore per la patria e con l’essere buoni cittadini. E allora tanti problemi potranno essere superati».
Se la Santa Sede riallaccerà le relazioni diplomatiche con la Cina, taglierà quelle con Taiwan, dove c’è una importante comunità cattolica che proprio grazie al governo di Taipei ha potuto vivere e operare in libertà.
«I vescovi e i cattolici di Taiwan sono più che preparati al cambiamento. E anche il governo è consapevole che è un passo inevitabile, lo hanno anche detto apertamente. Certo la Santa Sede dovrà gestire questo passaggio, quando avverrà, con grande prudenza e rispetto. Si devono evitare fin da ora dichiarazioni avventate che possono offendere tutti i cinesi di Taiwan. Piuttosto, al momento giusto si dovrà chiedere scusa per questo passaggio ed esprimere riconoscenza a Taiwan e ai suoi cattolici».
IL TIMONE – N. 53 – ANNO VIII – Maggio 2006 – pag. 18 – 19
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